GLI ABBRACCI SPEZZATI

DI FRANCESCO MININNI

Di cosa trattano i film di Almodovar? Semplice: di cinema. Anche quando si lancia in paradossali provocazioni che ambirebbero a riconfigurare una realtà che non ama, Almodovar parla sempre di suoni, colori, sentimenti, sguardi, passioni. Quindi di melodramma, il suo cinema per eccellenza. Quindi di Douglas Sirk, Vincente Minnelli, persino Raffaello Matarazzo. E qualche volta anche di fotoromanzi, thriller, horror, musical, commedia brillante. Insomma, un gran misto che solo i divoratori di cinema possono permettersi.

Ma naturalmente, in questa ipotesi di collage, Almodovar mantiene la propria identità artistica: provocatore, burattinaio, chef, cantastorie, arredatore, ma più di ogni altra cosa regista, ovvero organizzatore delle vite altrui secondo la propria sensibilità e la propria lente d’ingrandimento sulla vita (o sul cinema, che potrebbe essere esattamente la stessa cosa). «Gli abbracci spezzati» dichiara ad ogni piè sospinto la propria poetica dell’eccesso: il protagonista è un regista divenuto cieco in seguito a un incidente d’auto, quindi capace ancora di immaginare e scrivere storie ma non più di tradurle in immagini. Il che corrisponde esattamente alla sua vita privata: la donna che amava è morta nello stesso incidente e lui non può che appigliarsi al ricordo, cioè a un’immagine mentale che in un certo senso gli impedisce di continuare a vivere e ad amare come se tutto andasse avanti. Soltanto abbandonandosi traumaticamente al flusso inarrestabile dei ricordi, Mateo Blanco potrà smettere di essere Harry Caine e tornare ad essere se stesso rimettendo mano al film incompiuto e distribuito secondo il montaggio sconsiderato voluto dal produttore. Perché, come dice Mateo stesso, un film si deve fare, anche a dispetto della cecità. Tanto basta per vivere.

«Gli abbracci spezzati» sembra sceneggiato da un folletto che salta da un film all’altro senza mai trovare riposo. Da «Viaggio in Italia» a «Ascensore per il patibolo», da «Notorious» a «Il bruto e la bella», addirittura a un film incompiuto che in realtà è palesemente «Donne sull’orlo di una crisi di nervi», Almodovar fa il possibile per amare i propri personaggi, ma soprattutto per dichiarare a più riprese e con passione quasi sfrenata il proprio amore per il cinema. Certo, questa passione lo porta spesso a debordare, ad essere sempre sopra le righe, a ignorare l’utilità del freno dedicando tutta l’attenzione all’acceleratore. Ma non si può negare che il cinema di Almodovar parli un linguaggio che chi conosce il cinema (anche classico) conosce bene ed è quasi sempre in grado di decifrare. In fondo il suo film, come quasi tutto il suo cinema, parla d’amore: dell’amore fisico, dell’amore negato, dell’amore interrotto, dell’amore impossibile, dell’amore come motore dell’esistenza. E così torniamo di nuovo al cinema, che è praticamente un sinonimo di amore e di vita. «Gli abbracci spezzati», più che una ballata, è una sinfonia per amore e orchestra nella quale brillano le invenzioni scenografiche, il consapevole contrappunto musicale, la matura interpretazione di Penelope Cruz e una lunga serie di riferimenti allo sguardo, nella mancanza di esso al tatto, a tutto ciò che insomma lega un regista al rapporto con l’immagine, che può essere sia quella impressa su una pellicola, sia quella della memoria legata alla vita vissuta. Il che, in sostanza, ci introduce all’ultima domanda che, è bene precisarlo, rimarrà senza risposta: quanto de «Gli abbracci spezzati» è vita e quanto invece è cinema? Potremmo dire tutto dell’uno e tutto dell’altra. Ma dovremmo essere sicuri di poter distinguere chiaramente le diverse parti del film ed essere certi di assistere a un flashback o a un ricordo invece che a un film nel film. Una certezza che Almodovar, giocatore e talvolta baro, non ha alcuna intenzione di darci.

GLI ABBRACCI SPEZZATI (Los abrazos rotos) di Pedro Almodovar. Con Penelope Cruz, Lluis Homar, Blanca Portillo, Josè Luis Gòmez. SPAGNA 2009; Drammatico; Colore