LOURDES
di Francesco Mininni
Se «Lourdes» di Jessica Hausner ha ricevuto un premio dall’Organizzazione cattolica per le comunicazioni e uno dall’Unione degli atei e degli agnostici razionalisti, vuol dire, anche prima di vederlo, che si tratta di un’opera che lascia a ciascuno piena libertà d’interpretazione. Chi la volesse leggere come una (tiepida) testimonianza di fede potrebbe farlo. Chi la volesse leggere come un approccio razionalista al fenomeno miracolistico potrebbe farlo. Da qui a dire che «Lourdes» ha messo d’accordo credenti e non credenti ce ne corre. In realtà Jessica Hausner, al suo terzo lungometraggio, non mostra alcuna fede: tutt’al più una sorta di curiosità, un certo rispetto per le credenze altrui e, soprattutto, la volontà programmatica di astenersi da qualunque forma di coinvolgimento emotivo o passione.
Così «Lourdes» diventa la cronaca quotidiana, ripetitiva e fredda di quello che a tutti gli effetti è un miracolo, ma che sgombra il campo da ogni intervento divino per concentrarsi invece sulle miserie umane, sull’invidia, sullo stupore attonito di una protagonista incapace di qualunque emozione, su una sorta di diffidenza per le persone in divisa (nel caso specifico i volontari dell’Ordine di Malta) e su domande cui nessuno potrà mai rispondere. Se, ad esempio, si possa mettere in discussione la bontà di Dio a fronte della sua onnipotenza: perché, se è buono e onnipotente, non guarisce tutti invece di dispensare miracoli col contagocce? Come dire, perché chi non guarisce si rode nella propria delusione invece di gioire per la guarigione di un altro? Tutto molto umano, comprensibile e a lungo andare ozioso. Se è onnipotente, potrebbe concludere il cinico, fa quel che vuole. Da tutto questo è accuratamente evitata la disamina della posizione dell’uomo, che sembra semplicemente una creatura sofferente incapace di godere del poco struggendosi per il molto.
Christine, immobilizzata dalla sclerosi a placche, arriva a Lourdes e si sottopone alla trafila prevista: visita alla grotta delle apparizioni, bagno nelle piscine di acqua miracolosa, abluzioni, preghiere. Un rituale talmente immutabile e ripetitivo da sembrare a lungo andare insensato. Eppure un giorno Christine muove una mano e quella stessa notte si alza dal letto e va in bagno. Un medico tiene a precisare che potrebbe trattarsi di un miglioramento passeggero. Ma lei, senza saper bene come prendere la cosa, si gode la ritrovata libertà di movimenti. Poi, sentendosi stanca e provata, torna a sedersi sulla sedia a rotelle.
È difficile capire fino in fondo il punto di vista di Jessica Hausner. Molto probabilmente la regista austriaca si tiene nel mezzo: non credendo nell’intervento divino, evita ogni coinvolgimento e si limita a registrare le reazioni degli altri personaggi. Così facendo non scontenta nessuno da un punto di vista ideologico, ma consegna al pubblico un oggetto abbastanza inerte dal ritmo faticoso e, in fin dei conti, dalle motivazioni labili.
Quando dice di essersi ispirata a «Ordet» di Carl Theodor Dreyer compie un atto di autentica presunzione. E quando dice che, per l’umorismo, si è ricordata di Jacques Tati ci induce a chiederci: ma quale umorismo? «Lourdes» sembra più che altro un filmino girato durante le vacanze e poi imposto a conoscenti e amici nella certezza di un applauso compiacente. In esso non pulsano né il cuore del credente né la vena del polemista. Perché Jessica Hausner non raggiunge né le vette spirituali di Bresson o Tarkovskij né le argute dissacrazioni di Buñuel o Almodovar. Si limita a registrare avvenimenti, si direbbe quasi in tempo reale, senza intervenire mai a livello di stile o di partecipazione emotiva. Così «Lourdes», luogo delle apparizioni della Madonna a Bernadette nel quale ad oggi sono soltanto 67 i miracoli riconosciuti dalla Chiesa, non riesce ad impressionare da un punto di vista formale né a far sbilanciare, in positivo o in negativo, sui problemi sollevati dal contenuto.
Salvo per l’interpretazione di Sylvie Testud, straordinaria nel suo mantenere costantemente la stessa aria inconsapevole, e per un finale (la festa a conclusione del pellegrinaggio) che riesce ad evocare sia Bresson che i Dardenne nel suo girare disperatamente intorno a un dubbio. Alla fine, chi crede continuerà a credere, chi non crede certo non si convertirà.