ROBIN HOOD

DI FRANCESCO MININNI

La presunzione di Ridley Scott sembra non avere confini. E ne ha di che: in fin dei conti il pubblico, decretando il successo incondizionato de «Il gladiatore» e «Le crociate», gli ha dato carta bianca non solo come maestro dell’avventura, ma anche come storiografo ufficiale di un cinema che, a conti fatti, trova molto più conveniente disinteressarsi della storia vera e inventarne una che, pur facendo riferimento a personaggi e avvenimenti veri, li mescola allegramente per ottenere una sorta di cocktail che il pubblico (master & commander, quando si parla di esito di un film) sicuramente gradirà.

Immemore di aver scritto, nell’ormai lontano 1977, una bella pagina di storia marginale che si trasforma in analisi precisa di un periodo complesso (quello napoleonico) con «I duellanti», che d’altronde poggiava sulle solide spalle del testo di Joseph Conrad, Scott affronta Robin Hood con la precisa intenzione di dare una spallata al mito per ricondurre il tutto alle ragioni della storia. Niente di male, se non che la storia non è esattamente quella accaduta, ma quella che Ridley Scott pensa, desidera o vuole che sia accaduta.

E così ci risiamo: dopo il colonnato del Bernini nella Roma di Marco Aurelio, l’imperatore Commodo che scende nell’arena per dare il colpo di grazia al gladiatore Maximus, il nobile Balian che da feudatario di Terrasanta si trasforma in maniscalco, ecco Robin (Robin Head, Robin di Locksley, Robin Hood) diventare Robin Longstride, figlio di un tagliapietre, arciere in Terrasanta al servizio di Riccardo Cuor di Leone, pronto alle armi e alle parole, vicino alla morte per mano dei suoi, improvvisamente libero e, nella confusione successiva alla morte del Re in terra di Francia, lesto ad appropriarsi dell’identità del nobile Robert Locksley e a tornare in quel di Nottingham per restituirne la spada al padre in segno di filiale rispetto. A Nottingham lo attende una vedova, lady Marian, che il vecchio Locksley, consapevole della confusione politica dovuta alla salita al trono di Giovanni detto Senza Terra e al subbuglio serpeggiante tra i baroni esasperati dall’escalation delle tasse, destina a lui per impedire l’esproprio delle terre a una donna sola.

E via e via fino alla promessa di Giovanni di una carta (che sarà poi, qualche anno dopo, la Magna Charta) che riconoscesse al popolo inglese la libertà per diritto, alle manovre di Filippo il Bello di Francia per approfittare del caos e invadere l’Inghilterra, al bieco tradimento di Godfrey, all’unione dei baroni e alla ricacciata dell’invasore in terra di Francia. E Robin Hood? Che ci sia ciascun lo dice, dove sia nessun lo sa.

Le intenzioni storiografiche di Scott allontanano d’un colpo tutti gli accessori del mito: frate Tuck, Will Scarlet, Little John e persino lo sceriffo di Nottingham ci sono, ma sono gente comune priva di qualunque caratteristica che possa farli entrare nella storia. E ancora non ci sarebbe niente di male, perché di solito le ragioni della storia spazzano via quelle della leggenda. Si dà, tuttavia, che le ragioni della storia di Ridley Scott siano evanescenti come una bolla di sapone. Sembra, ad esempio, che Re Riccardo muoia in Francia al ritorno dalla Terza Crociata senza rimettere piede in Inghilterra; sembra che i tempi dell’accordo tra Giovanni e i baroni siano strettissimi e, soprattutto, in circostanze che avrebbero reso la cosa più agevole di questo mondo eliminare il reggente senza timore di alcuna ritorsione; sembra che Longstride, usurpatore di titolo nobiliare, sia da tutti ascoltato come una sorta di oracolo e che sia proprio lui a convincere tutti della necessità dell’unione. Finché, messo fuori legge da Giovanni, tira finalmente fuori dalla faretra la freccia del mito, quella che inchioda sul tronco di un albero il bando reale che dichiara la sua appartenenza al lato oscuro della forza. Troppo tardi: ormai i francesi sono sbarcati sulla coste inglesi seguendo le modalità dei marines in Normandia e noi abbiamo capito che la storia secondo noantri di Ridley Scott non è di certo storia né leggenda.

Certo, è cinema. Se a «Robin Hood» avessero tolto anche quello, sarebbe stato peggio di una fiction pomeridiana. Così, invece, possiamo apprezzare la fisicità di Russell Crowe, l’algore di Cate Blanchett e, soprattutto, la sublime dignità di Max von Sydow. Se non vi basta, c’è anche la musica di Streitenfeld che nella battaglia sulla spiaggia assume echi inconfondibili di certi temi di Morricone. Tutto questo fa un successo sicuro.

ROBIN HOOD (Id.) di Ridley Scott. Con Russell Crowe, Cate Blanchett, Mark Strong, William Hurt, Danny Huston, Max von Sydow. USA/GB 2010; Avventura; Colore