IL TEMPO CHE CI RIMANE

DI FRANCESCO MININNI

Elia Suleiman è un palestinese che, al di là di ogni diplomazia e desiderio di quieto vivere, sostiene la causa del proprio popolo. Ma è anche un realista che, ben conoscendo tutti gli ostacoli che dovrebbero essere superati per arrivare alla soluzione del problema, ha adottato per le sue storie politiche uno stile quasi surreale, spesso più teso verso il sogno che verso la cronaca della realtà.

Infine, tolte alcune ovvietà che diventano praticamente inevitabili, è anche un poeta malinconico che, apparendo sempre come attore e più specificamente nella parte di se stesso, mostra un’espressione monolitica e apparentemente fuori di ogni emozione che lo apparenta in prima battuta a Buster Keaton, anche se poi dichiara la propria reverente ammirazione per Jacques Tati.

C’è di che incuriosirsi, soprattutto se ricordiamo «Intervento divino», la sua struttura a episodi, il suo umorismo dolcemente stralunato e il suo desiderio di pace. Tutte cose che puntualmente si ripropongono ne «Il tempo che ci rimane» che, con la sua struttura quadripartita, percorre sessant’anni di storia palestinese dal 1948, ovvero dalla nascita dello stato d’Israele, ad oggi. E li percorre con le caratteristiche dell’autobiografia (il film è dedicato ai genitori), ma non con quelle del realismo. Se qualcuno dovesse lamentare problemi di ritmo, dovrà tenere ben presente che «Il tempo che ci rimane» è la storia di un apolide che, abitando nella propria terra (a Nazareth) senza poterla chiamare col suo nome, vive una ininterrotta situazione di esule in patria che gli rende sempre difficile raggiungere un equilibrio interiore.

Il padre di Elia, Fuad, è un guerrigliero palestinese esperto di armi. Arrestato una prima volta e arrivato molto vicino alla morte, Fuad tornerà comunque a Nazareth mettendo su famiglia e adottando uno stile di vita abitudinario e ripetitivo dovuto anche alle condizioni del suo cuore. Suo figlio Elia, cresciuto, sarà a sua volta perseguitato e ricercato, quindi costretto alla fuga. La storia della famiglia (e della nazione) è ancora lontana dall’essere compiuta.

Il bello de «Il tempo che ci rimane» sta nella deliberata esclusione di episodi di guerra che potrebbero far invocare la diretta attualità. Suleiman affronta la realtà con l’occhio del poeta e con il piglio dell’umorista sarcastico e surreale, riuscendo comunque a renderci partecipi di un dato fondamentale nell’epopea del popolo palestinese: la precarietà. Suo padre è malato di cuore, sua madre di diabete, il vicino si cosparge di kerosene minacciando di darsi fuoco, l’altro vicino gli sottopone continuamente idee bizzarre per la soluzione del conflitto, la polizia fa il proprio dovere con una sorta di reiterazione che la rende ampiamente prevedibile e persino ridicola, i taxisti perdono la strada durante un temporale in stile perfettamente kafkiano. La realtà si trasfigura continuamente in qualcosa di astratto che rende molto difficile individuare le soluzioni pratiche.

Ecco così che Suleiman sfodera la propria vena più autenticamente trasfigurativa: le esplosioni lontane si trasformano in fuochi artificiali che potrebbero annunciare la nascita di un nuovo giorno, i poliziotto muovono le teste al ritmo della musica suonata dai ragazzi che vorrebbero far sloggiare dalla discoteca, una suora rinuncia alla fuga e torna ad occuparsi dei bisognosi in zona pericolosa e, sopra ogni altra cosa, lo stesso Elia prende di petto il muro di Gaza e lo supera di slancio saltandolo con l’asta. Ecco, ci sembra che «Il tempo che ci rimane» abbia una rara qualità: riuscire a far capire una situazione storica nel suo divenire senza dare mai l’impressione di affrontarla direttamente.

Qui il punto va ben oltre il dibattito su ragioni e torti da distribuire equamente tra israeliani e palestinesi, tra fondamentalisti e moderati, tra pacifisti e terroristi: Suleiman si limita a reclamare un disperato bisogno d’identità che lo accompagna praticamente dalla nascita e che gli impedisce di chiamare «casa» la terra in cui vive. Quel muro saltato con l’asta sembra voler dire che al momento (un momento che dura da anni) non si prevedono soluzioni praticabili al di là di una vena di malinconica follia. Praticamente, una lezione di storia tenuta da un clown che, dietro i sorrisi, nasconde una tristezza atavica.

IL TEMPO CHE CI RIMANE (The Time That Remains) di Elia Suleiman. Con Elia Suleiman, Saleh Bakri, Samar Qudha Tanus, Tarek Qubti. I/F/B/UK/PALESTINA 2009; Drammatico; Colore