UNA NOTTE BLU COBALTO
DI FRANCESCO MININNI
Che l’ambientazione di «Una notte blu cobalto» di Daniele Gangemi sia catanese non è esattamente essenziale allo svolgimento di un film che, gira e rigira, ci proietta nuovamente nel disagio giovanile e nel malessere di vivere che ormai fanno parte di diritto non soltanto della vita vera, ma anche della maniera di un certo cinema italiano. Ciò che tuttavia qualifica il film di Gangemi innalzandolo di poco sulla media standard del genere è un tentativo, non proprio riuscito ma presente, di condurre la storia narrata sul doppio binario di una triste realtà e di un sogno capace di rigenerare.
Non a caso in una inquadratura del film compaiono due manifesti cinematografici, quelli di «Otto e mezzo» di Fellini e di «Donnie Darko» di Richard Kelly, ovverosia il guardarsi dentro per ritrovarvi un’esistenza più sognata che reale da una parte e il teatrino dell’assurdo che trasforma il malessere di un giovane in un incubo senza fine.
Così facendo Gangemi indica una strada per percorrere il suo film: sostanzialmente non fidarsi delle apparenze e non pensare quindi che tutto ciò che stiamo vedendo stia realmente accadendo nell’arco di una notte che, una volta tanto, porterà davvero consiglio.
Dino Malaspina, studente universitario probabilmente fuori corso, è incapace di metabolizzare il fatto che Valeria abbia deciso di prendersi una pausa di riflessione che vuol dire a tutti gli effetti separazione. Perso dietro la ricerca di un dialogo improbabile, manca gli appuntamenti con gli amici e con gli esami e finisce per accettare un lavoro dalla pizzeria «Blu Cobalto», gestita da Turi che si diletta di motti esistenziali e filosofici tutti da interpretare. Nell’arco di una notte consegnerà pizze, incontrerà persone sempre più problematiche e bizzarre, continuerà a vivere di ricordi non agevolato dal fatto di dover consegnare una pizza proprio a Valeria, si convincerà di essere diventato complice di una banda di spacciatori di droga e soltanto alla fine capirà che il destino (o chi per lui) gli sta dando una mano a ritrovare la strada per uscire dal vicolo cieco in cui si era infilato.
«Una notte blu cobalto» ha pregi e difetti dell’opera prima di un intellettuale cinefilo. Alla sceneggiatura hanno partecipato anche i due protagonisti Corrado Fortuna (quello di «My Name Is Tanino») e Regina Orioli (quella di «Ovosodo» e «Gallo cedrone»), il che fa pensare che comunque abbiano contribuito con qualche esperienza personale più o meno modificata. Quel che funziona di meno, nel film, è il passaggio dalla dimensione reale a quella onirica, in modo che comunque riesce difficile identificare la seconda come tale prima di ritrovarsi sbalzati fuori del sogno e dover prendere atto di una realtà che in ogni caso dà un senso di continuità che non giova al doppio piano del racconto. C’è però il personaggio di Turi, che Alessandro Haber rende con ironia e competenza e che in fondo rappresenta il nocciolo del discorso. Concepito come un’elaborazione onirica di Dino, si propone a tutti gli effetti come uno spacciatore di felicità, che tutto sommato potrebbe essere un mestiere piuttosto redditizio. L’importante è che il destinatario sia non soltanto consapevole della missione, ma anche disponibile a metterci del proprio senza aspettare che la soluzione di ogni problema gli piova dal cielo come un effetto speciale. In questo senso il Turi di Haber potrebbe essere addirittura Dio, disposto ad aiutare chiunque voglia aiutare se stesso. È in fondo la soluzione più azzeccata di un film che, altrimenti, avrebbe probabilmente girato a vuoto intorno all’ennesima crisi esistenziale di un giovane incapace di uscire da un imbuto da sé medesimo allestito.
A «Una notte blu cobalto» manca una decisa qualità visionaria, al punto che lo spettatore è comunque portato a credere che tutto ciò cui sta assistendo stia effettivamente accadendo e che non si tratti invece di un’intensa attività onirica cui farà seguito una nuova consapevolezza della propria esistenza. Benché i richiami ai film di Fellini e Kelly restino un desiderio, Gangemi mostra comunque la volontà di raccontare una storia solita in modo un po’ diverso. Trovandoci in particolari condizioni di benevolenza, potremmo dire che è già qualcosa.