TOY STORY 3 LA GRANDE FUGA
DI FRANCESCO MININNI
A volte far trascorrere un po’ di tempo per riflettere sulle cose può essere positivo per ritrovare lo slancio e non limitarsi soltanto a sfruttare fino in fondo una buona idea di partenza. Quando nel 1995 la Pixar ideò «Toy Story», ci fu la novità di una storia vista interamente dal punto di vista dei giocattoli. Già quattro anni dopo «Toy Story 2» mostrò un’ispirazione più debole e molto soggetta alla ripetizione.
Al di là dei grandi pregi tecnici di un’animazione straordinariamente perfezionata, c’era il rischio concreto di un calo di fantasia a beneficio della riproposta pedissequa di personaggi e ambienti. Forse John Lasseter, creatore della serie, se n’è accorto. O forse no, in ragione del successo immutato e anzi maggiore. Comunque, sono dovuti passare undici anni e molta tecnologia perché vedesse la luce il terzo episodio, affidato alla regia di Lee Unkrich e alle meraviglie del nuovo giocattolo tridimensionale. Ebbene, ci fa piacere constatare che in questi undici anni Lasseter e compagnia (che vorrebbe dire Pixar e Disney) non hanno pensato soltanto alle magie tecniche, ma hanno riflettuto anche su tematiche e idee nuove.
Diciamo innanzitutto che «Toy Story 3» contiene un bel messaggio di solidarietà e amicizia che, anche venendo da giocattoli, può tranquillamente essere applicato alla vita quotidiana degli esseri umani. Mostrando che tra i giocattoli, proprio come tra gli uomini, ci sono problematiche di carattere e, soprattutto, anche qualche mela marcia, Unkrich fa il proprio dovere nei confronti dell’infanzia cui il film è destinato. Ma, oltre a questo, c’è un dispiego di fantasia, ironia e acume che risveglia persino in vecchi topi di biblioteca come noi il gusto per l’animazione e per tante sue potenzialità spesso inespresse. Basterebbe il resettaggio di Buzz che, a causa di un inconveniente tecnico, si risveglia impeccabile latin lover di lingua spagnola.
Ma come dimenticare Mr. Potato che, per passare sotto lo spessore di una porta, si trasforma in tortilla e deve guardarsi dalle attenzioni di un piccione affamato? E che dire del corteggiamento tra Barbie e Ken, con tanto di sfilata di moda e mossette da rotocalco? O ancora la punizione del cattivo Lotso, costretto a viaggiare come mascotte legato al frontale di un Tir e invitato dai compagni di viaggio (nelle sue medesima condizioni) a tenere la bocca chiusa? Insomma, Lasseter, Unkrich e lo staff di sceneggiatori e animatori hanno davvero fatto il possibile per mantenere alto lo standard della serie, al punto che sono addirittura riusciti a fare di meglio. L’autoironia, certi tocchi surreali, il ritmo e, più di tutto, la semplicità che mai si trasforma in banalità ci fanno pensare che forse c’è ancora speranza per inventare qualcosa che non sia già stato fatto da qualcun altro. Speriamo che dai giocattoli agli esseri umani il passo sia breve.