PIETRO
DI FRANCESCO MININNI
Che Torino fosse una città capace di grande freddezza e distanza umana lo sapevamo già. Ce l’aveva raccontata Daniele Gaglianone in «Nemmeno il destino», storia di adolescenti lasciati a se stessi e, nel migliore dei casi, alla ricerca di un faticosissimo equilibrio interiore. Ed è ancora Gaglianone a raccontarcela di nuovo in «Pietro», un film doloroso e durissimo che, rispetto al film precedente, non è in grado di offrire neanche un appiglio o un lontano barlume di speranza. Ecco, quel che non sapevamo è che Pietro, emarginato e testimone silenzioso di mille violenze e ingiustizie, è uno di noi, uno di quei piccoli che non abbiamo sfamato, dissetato, vestito, curato o visitato e dei quali un giorno ci sarà chiesto conto.
Pietro, ventottenne rassegnato a un’esistenza marginale, ha un fratello tossicodipendente, un lavoro di volantinaggio che non dà alcuna sicurezza, la piena consapevolezza che tutto quanto gli accade non può essere evitato, la capacità di registrare con lo sguardo e con il cuore le bruttezze del mondo circostante, il disperato bisogno di una mano che nessuno gli tende. La sua esistenza si consuma tra serate in compagnia degli amici del fratello, che applaudono alle sue facce buffe e alle sue surreali imitazioni, pomeriggi in giro per Torino ad attaccare volantini sui tergicristalli, richieste di denaro da parte del fratello che deve pagarsi la droga, una disperata ironia che lo porta a commentare «Un tramonto romantico» di fronte ai grattacieli e alle gru, soprattutto una lunga serie di umiliazioni che lui, ormai avvezzo, sembra incamerare senza reagire. Almeno fino al momento in cui uno spacciatore, asciugandosi il viso alla tenda di casa sua, tira giù l’asta di legno che Pietro periodicamente risistemava con qualcosa di molto simile all’amore. Il gesto, apparentemente banale, è la goccia in più. Pietro ha una reazione a catena che farà emergere tutta la sua rabbia lungamente repressa.
A una lettura superficiale si potrebbe dire che «Pietro» è un film che comincia come «Arancia meccanica» (il pestaggio del barbone sulla metropolitana) e finisce come «Cane di paglia» (la reazione di Pietro). I riferimenti sono legittimi, ma la parentela finisce lì. Sì, perché c’è un fondamentale elemento in più che è quello della testimonianza. Pietro assiste al pestaggio e a sua volta subisce una serie di violenze psicofisiche che lo rendono molto di più di un vendicatore. Pietro è una vittima che, pur essendo profondamente capace d’amore, è quasi costretto ad esprimersi nell’unico linguaggio che il mondo capisce. È un vulcano costantemente a rischio d’eruzione: nel momento in cui ciò dovesse accadere, sarebbe consigliabile trovarsi a una consistente distanza di sicurezza. La domanda di fondo è: dove ha nascosto Gaglianone quell’inequivocabile sottofondo di speranza che aveva contraddistinto sia «I nostri anni» che «Nemmeno il destino»? La risposta è intimamente legata al tipo di cinema che Gaglianone fa e che, di certo, non gli rende agevole trovare produttori disposti ad investire sui suoi progetti. Come l’autore stesso afferma: «Questo film nasce tre anni fa in un momento un po’ particolare della mia vita. Era un periodo in cui ho pensato di essere tagliato fuori, di non trovare uno spazio. Allora mi è venuta in mente questa storia, quasi fosse una risposta a quelli che mi accusavano di essere troppo radicale». Quindi potremmo dire che Gaglianone non sta soltanto con Pietro: è Pietro che, allontanato da un mondo che non recepisce le sue istanze, reagisce con la rabbia di una vita intera. Pertanto «Pietro», che non racconta episodi della sua esistenza, è di gran lunga il suo film più autobiografico e toccante, magistrale nell’aprire una finestra su un’Italia brutta e cattiva che non necessariamente trova posto nei telegiornali e sui quotidiani. Ed è veramente sorprendente il fatto che Pietro Casella, il protagonista, non sia un personaggio preso dalla strada, ma addirittura un cabarettista che con il trio «Senso doppio» (con Nicastro e Lattarulo, anch’essi nel film) ha partecipato anche a «Zelig». La sua interpretazione di Pietro è straordinaria. Ci guarda attonito e sembra sempre sul punto di chiederci, prima balbettando poi gridando, «Io sono vivo, come voi. Ma voi che potete, perché non fate qualcosa?».
Piuttosto, c’è un’interessante questione che vorremmo sottoporvi. In «Deep Impact», quando la cometa colpiva il nostro pianeta, il presidente degli Stati Uniti era di colore. E lo era anche in «2012» al momento in cui si ipotizzava la fine del mondo. Qui, con Shelton che ammazza tutti, il sindaco di Filadelfia è una donna di colore. Siamo sicuri che il problema del razzismo negli Stati Uniti sia veramente risolto?