MALAVOGLIA
DI FRANCESCO MININNI
Di fronte al rigore, al coraggio, alla coerenza di Pasquale Scimeca non possiamo che levarci tanto di cappello. Da sempre legato alla propria terra, una Sicilia bellissima e flagellata dal vento, dal mare e dalla povertà, Scimeca non è mai caduto nella tentazione (con la parziale eccezione de «La passione di Giosuè l’ebreo») di raccontare altro. E inevitabilmente ha finito per confrontarsi con un gigante della letteratura che, come lui, ha raccontato la gente del popolo, quella povera sul serio, i vinti: Giovanni Verga.
Già affrontato in «Rosso Malpelo», che poteva comunque essere considerata una sfida meno impegnativa non foss’altro per il respiro più corto del racconto, si ripresenta ora in «Malavoglia». E qui c’è poco da scherzare. Oltre a essere uno dei romanzi più celebrati della letteratura mondiale, «I Malavoglia» era già diventato film, per mano di Luchino Visconti, come «La terra trema». Scimeca ha quindi consapevolmente scelto di misurarsi con un capolavoro della letteratura e uno del cinema. Ma non basta: ha anche deciso di scegliere la via più stretta aggiornando il testo e spostando l’azione ai giorni nostri. E, per assommare rischio a rischio, ha persino scelto di dare una direzione diversa al finale della storia. Tutto questo, in realtà, fermi restando i grossissimi rischi dell’operazione, corrisponde all’unica via percorribile per non incorrere in una inutile rappresentazione scolastica e tradizionale che avrebbe corrisposto alla solita fiction in veste di film. Ma c’è altro: corrisponde anche a una precisa volontà che, in tempi di abbrutimento culturale e di fatalismo esistenziale, tende invece a far sapere al mondo (a quella parte di mondo che vedrà il film) che, con le dovute attenzioni, una speranza c’è.
La barca è la stessa, la Provvidenza. L’abitazione è la stessa, la casa del nespolo. I personaggi si chiamano ‘Ntoni, Mena, Lia, Bastianazzo, Alessi, come quelli di Verga. Ma, ad esempio, Alfio si chiama in realtà Alef e viene dall’Africa su una nave strapiena di emigranti e clandestini: una povertà più a Sud di quella siciliana, forse più completa e palpabile. ‘Ntoni ascolta la musica con l’Ipod. Lia si lega a un soggetto losco che sembra coinvolto nel traffico di droga. Mena s’innamora di Alfio, come in Verga, ma la differenza sta nel fatto che stavolta s’innamora di Alef. Solo gli anziani, la madre e il nonno, mostrano caratteristiche eterne e immutabili: lei, dopo la perdita del marito e il secondo naufragio della Provvidenza, impazzisce dal dolore; lui continua a farsi forte della propria saggezza popolare e dei proverbi che tornano utili in ogni situazione. Al punto che, quando sembra che il mondo intero abbia voltato le spalle alla famiglia, il rap dei proverbi cantato da ‘Ntoni e Uzzy riscuoterà un imprevedibile successo allontanando lo spettro della rovina.
Ci vuol coraggio a chiamarlo lieto fine. La finezza di Scimeca, che permette ad ogni spettatore di decidere liberamente, sta nel fatto che la fortuna di ‘Ntoni è legata a un compromesso con il mondo dei successi facili e dei quindici minuti di popolarità. Come dire che la speranza sopravvive e che per la prima volta i Malavoglia non soccombono alla disgrazia, ma anche che per raddrizzare le sorti di un Sud del mondo dove la povertà ha pieno diritto di cittadinanza ci vorranno ben più di un rap e della musica techno. È vero che nella scelta di Scimeca c’è qualcosa di troppo facile e pesantemente didascalico, ma non si può negare che la sua Sicilia di mareggiate e scogliere abbia una forza storica, simbolica ed estetica da togliere il fiato e che si pone, insieme a «Tornando a casa» di Vincenzo Marra, come uno straordinario esempio di interazione tra volti, suoni e paesaggi senza retorica né compiacimento. Pensiamo addirittura che lo stesso Giovanni Verga non avrebbe protestato per un’operazione che, nel pieno rispetto dello spirito originale, in nome di un’identità culturale e di un’ansia sociale molto vive, non rinuncia a dire la propria sull’incontro traumatico tra nuove e vecchie ragioni di dolore. È proprio vero: i tempi cambiano solo un po’.