IL VILLAGGIO DI CARTONE

DI FRANCESCO MININNI

Se dovessimo indicare un tratto distintivo più caratteristico di altri nello stile di Ermanno Olmi, non avremmo dubbi nell’indicare il realismo. Simbolico, non c’è dubbio, ma indubbiamente realismo. Non sarà un caso se i due episodi più discutibili della sua lunga carriera corrispondono a due film simbolici ma surreali, «Lunga vita alla Signora» e «Il segreto del bosco vecchio», più un mediometraggio che era inserito nel film a sei mani «Tickets». Ecco perciò che la scelta di ambientare «Il villaggio di cartone» in un’epoca che non si sa, in un luogo non ben definito e con personaggi fluttuanti tra dimensione reale e onirica non corrisponde esattamente al campo nel quale l’autore sa muoversi con maggior sicurezza e padronanza. In più, si deve prendere atto di una certa confusione d’intenti che porta Olmi a sovraccaricare il film di temi, sottotemi e appendici fino a rendere impossibile allo spettatore entrare realmente nel racconto in modo da poter valutare dall’interno. C’è anche da dire che in un contesto surreale appaiono fuori luogo alcune affermazioni inutilmente precise, come ad esempio la battuta del dottore «Ho pregato l’ultima volta in un campo di sterminio» che, comunque la si metta, ci induce a chiederci quale sia il campo di sterminio, quanti anni abbia il medico e, alla fine, in quale anno sia ambientata la vicenda. Ciò corrisponde perfettamente a Olmi che, anche quando tenta strade diverse, non riesce a fare a meno di tornare su quelle più conosciute. Ma è anche un fattore che confonde le carte in tavola suscitando domande che fatalmente rimarranno senza risposta.

Si comincia con la dismissione di una chiesa, dalla quale vengono rimossi gli arredi sacri e lasciate soltanto le panche. Il sacerdote, anziano e malato, chiede al vescovo il permesso di continuare ad abitare quella canonica che è sempre stata la sua casa. Poi, dal nulla, arrivano gli immigrati clandestini, presumibilmente africani, che si installano in chiesa dormendo sulle panche e dividendo i singoli spazi con fogli di cartone. Tra gli immigrati ci sono una specie di leader tranquillo e pacifista, qualche estremista con cinture esplosive, un vecchio saggio e una giovane incinta. Il sacerdote li accoglie e li aiuta come può, scoprendo a quanto pare per la prima volta il sentimento della carità. Poi arrivano le forze dell’ordine…

Se vogliamo cominciare dall’inizio, c’è da chiedersi se la spoliazione della chiesa non voglia essere un simbolo di qualcosa di più, ovverosia di una chiesa vuota che attende qualcuno che la riempia. Qui Olmi sembra tornare alla vis polemica di «Centochiodi», il che sembra confermato anche dal sacerdote in crisi di fede che sente lontano il richiamo di Cristo, dall’aggressività del sacrestano e dai discorsi del medico. Poi, però, tutto si sovrappone e si affastella: una natività, un tradimento («Mi metterò vicino a lui»), l’esplosivo, le forze dell’ordine rappresentate come ronde di vigilantes, l’immagine ricorrente di un relitto su una spiaggia e di un quaderno (che noi sappiamo in possesso di uno degli immigrati) portato via dalle onde, l’arrivo di elicotteri e il lampeggiare di sirene. Insomma, si ha quasi l’impressione che la materia simbolica abbia preso la mano all’autore portandolo a sbagliare il dosaggio e a caricare il film di tanti affluenti da perdere di vista il corso principale. Non vorremmo dare l’idea di razionalizzare troppo, ma ci è venuto spontaneo chiederci che tipo di missione avesse svolto il sacerdote nei lunghi anni precedenti se la scoperta della carità rappresenta per lui qualcosa di tanto nuovo e sconvolgente. Siamo d’accordo che certe disposizioni dell’animo dovrebbero essere prioritarie in un uomo di Chiesa, ma quel che ha fatto Olmi, ovvero generalizzare ed estendere il concetto alla Chiesa intera, ci sembra fuorviante e sicuramente non veritiero. Soltanto in un caso ci siamo sentiti in completa sintonia con lui, quando fa dire al sacerdote «Quando la carità dà scandalo, allora è il momento della carità». Vorremmo girare il messaggio al grande regista (perché tale resta) modificandolo un po’: quando il surreale mette confusione, allora è il momento della realtà.

IL VILLAGGIO DI CARTONEdi Ermanno Olmi. Con Michel Lonsdale, Rutger Hauer, Alessandro Haber,  Massimo De Francovich. ITALIA 2011; Drammatico; Colore