MIRACOLO A LE HAVRE

DI FRANCESCO MININNI

Cominciamo dal titolo italiano: «Miracolo a Le Havre» è decisamente troppo esplicativo, quasi trionfalistico, inutilmente eccessivo se paragonato all’originale scarno, povero e unicamente indicatore di un dato geografico «Le Havre». Quindi, in partenza, sappiamo già che assisteremo a qualche evento prodigioso, mentre sarebbe stato meglio arrivarci per gradi.

D’altronde il regista finlandese Aki Kaurismäki, che non è esattamente un campione d’ottimismo, si definisce un narratore di favole e con poche parole chiarisce meglio di ogni lungo discorso quale debba essere il modo di affrontare il suo film: «Il cinema europeo non ha molto affrontato il continuo peggioramento finanziario e politico e, soprattutto, la crisi morale che ha portato alla irrisolta questione dei profughi. Io non ho una risposta a questo problema, ma ho ancora voglia di affrontare la questione in questo film comunque non realistico».

E dunque, se «Miracolo a Le Havre» non è un film realistico a noi sembra evidente che l’apparente ottimismo nasconda in realtà una costante preoccupazione per la situazione in cui viviamo e che la consapevolezza che, oggi come oggi, quel che resta della speranza vada ricercato nelle pieghe di un racconto favolistico sia in realtà una dichiarazione di impotenza del reale a sanare le proprie ferite. Naturalmente, non esistono dubbi che Kaurismäki conservi un fondo di speranza. Ma, per l’appunto, potrebbe essere il lieto fine di una favola che, una volta chiuso il libro o finito il film, dovrebbe tornare a misurarsi con l’impatto della realtà.

Il protagonista è un lustrascarpe in un’epoca in cui quel mestiere praticamente non esiste più e vive con la moglie in una povera dimora in un quartiere poverissimo. Due gli avvenimenti che cambiano la sua esistenza: il ricovero in ospedale della donna a causa di un tumore già in stadio avanzato e l’arrivo di un bambino africano che cerca di raggiungere la madre che lavora a Londra. Marcel si prende cura del bambino cercando in tutti i modi di eludere i controlli della polizia e di trovare il modo migliore per imbarcarlo per l’Inghilterra.

Se «Miracolo a Le Havre» fosse un film realistico, più o meno come “Welcome” di Lioret, non potrebbe che avere una conclusione triste o interlocutoria. Se così fosse, forse i protagonisti Marcel e Arletty (regista e primattrice di «Alba tragica» e «Les enfants du Paradis») avrebbero un altro nome. Ma Kaurismäki vola alto sul cinema e sfodera non uno, ma ben tre miracoli: la partenza del bambino per l’Inghilterra, il buon cuore di un poliziotto che chiude un occhio e copre la sua fuga e, come ciliegina sulla torta, la guarigione di Arletty. Poi, nel timore che qualche entità maligna confonda le carte in tavola, chiude il film bruscamente cullandosi nella sua illusione. Non si può dargli torto: a leggere i quotidiani c’è ben poco da stare allegri e, senza perdere i contatti con la realtà che comunque ci avvolge, talvolta può essere rinfrancante trovare rifugio in un altrove dove le cose vadano esattamente come dovrebbero o come le vorremmo.

André Wilms, sovente compagno di viaggio di Kaurismäki, incarna con tranquilla voglia di vivere un personaggio che potrebbe essere anche protagonista di una delle favole di Frank Capra. Gli dà la replica Jean-Pierre Darroussin nel ruolo del poliziotto pentito. Incuriosisce, invece, l’uso di una delle icone della nouvelle vague e soprattutto del cinema di Truffaut, Jean-Pierre Leaud, per il ruolo del tutto marginale del vicino di casa spione e cattivo. Alla fine la peculiarità di «Miracolo a Le Havre» è quella di essere un film talmente a lieto fine da mettere addosso una gran tristezza. Un po’ come fu, ottant’anni fa, «Luci della città». Forse è proprio vero che Chaplin è il padre di tutti i film.

MIRACOLO A LE HAVRE(Le Havre) di Aki Kaurismäki. Con André Wilms, Kati Outinen, Jean-Pierre Darroussin, Elina Salo, Evelyne Didi, Jean-Pierre Leaud. FIN/D/F 2010; Commedia; Colore