THE ARTIST

di FRANCESCO MININNI

George Valentin è la star assoluta del cinema muto nella Hollywood degli anni Venti (specificamente del 1927). Grazie ai suoi buoni uffici, Peppy Miller comincia a muovere i suoi primi passi nel cinema e, piano piano, diventa una stella di prima grandezza. George, invece, non riuscendo a trovare spazio nella rivoluzione del cinema sonoro, finisce nel dimenticatoio. A un passo dal suicidio, troverà la forza di rialzarsi proprio grazie all’aiuto di Peppy, che mai ha dimenticato il suo benefattore di un tempo. Così, ballando il tip tap, anche George potrà tornare al successo.

Che «The Artist» sia un film scommessa nel riproporre oggi gesti ed espressioni del cinema muto è una verità incontestabile. E che il premio per la migliore interpretazione maschile tributato a Cannes al protagonista Jean Dujardin sia pienamente meritato è altrettanto condivisibile. C’è tuttavia una questione di fondo che, al di là della filologia e della ricostruzione di un mondo e di un cinema che non ci sono più, lascia qualche dubbio sul reale valore dell’opera. Ci si chiede perché mai, per raccontare la storia della gloria e della caduta di un celebre attore, il regista Michel Hazanavicius abbia scelto di realizzare un film muto. La storia insegna, infatti, che negli anni Venti il cinema era muto, ma tutto il resto no. E non è un caso se la sequenza di maggior impatto del film sia quella dell’incubo del protagonista che, dopo essere stato informato dell’avvento del sonoro, sogna che tutto, fuorché lui, abbia voce: il rumore dei bicchieri sul tavolo, un cassetto che si chiude di scatto, il cagnolino Uggie che abbaia e soltanto lui che, aprendo bocca per dire qualcosa, non ne sente uscire alcun suono.

Arriviamo al punto: il fatto che Hazanavicius abbia realizzato un film muto sa tanto di virtuosismo più che di necessità. Pur apprezzando l’eccellente ricostruzione degli studios, la minuziosa attenzione riservata ad abbigliamento e costumi, la buona caratterizzazione dei personaggi principali e secondari, non si può fare a meno di rilevare una certa distanza tra passione e spirito critico. Hazanavicius, in trasferta a Los Angeles, ha realizzato un credibile film muto senza dirci sul cinema muto nulla più di quanto già sapevamo. Apparirà chiaro a chi abbia un minimo di cultura cinematografica che «The Artist» è, alla fine dei conti, un film più citazionista che ispirato. A cominciare dal cane Uggie che, per movenze e capacità, non può non evocare il celebre fox terrier Asta della serie «L’uomo ombra». Per proseguire con la scelta delle musiche, interamente provenienti da celebri film del passato (non necessariamente dal cinema muto, se è vero che il tema finale del tentato suicidio è quello composto da Bernard Herrmann per «La donna che visse due volte» di Hitchcock).

Per continuare con la stellina che raggiunge e supera il suo “creatore” strizzando l’occhio un po’ a «È nata una stella» un po’ a «Eva contro Eva». Se poi ci soffermiamo un attimo sul personaggio interpretato da James Cromwell, l’autista di Valentin che rimane con lui anche quando la sorte lo fa cadere in disgrazia, vedremo aleggiare i fantasmi di Erich von Stroheim e Gloria Swanson in «Viale del tramonto» e capiremo, forse definitivamente, che per raccontare quell’epoca in cui la gente sognava in bianco e nero non era indispensabile realizzare un film muto. Lo diventa se il realizzatore desidera che si parli del suo film a tutti i costi oppure se insorge il sospetto che, al cospetto di un film normale», nessuno ne avrebbe parlato perché già tutto era stato detto.

Con questo non vogliamo negare che «The Artist» abbia qualche merito: l’interpretazione di Dujardin, la grazia di Bérénice Bejo, una fotografia in bianco e nero adeguatamente d’epoca di Guillaume Schiffman. Ma Hazanavicius è sicuramente un francese appassionato prima che un attento analista.

THE ARTISTdi Michel Hazanavicius. Con Jean Dujardin, Bérénice Bejo, John Goodman, James Cromwell, Penelope Ann Miller. FRANCIA 2011;Drammatico; Bianco e nero