DIAZ

DI FRANCESCO MININNI

La chiave di volta di «Diaz» di Daniele Vicari è sostanzialmente stilistica, ma il suo problema è pesantemente ideologico. Lo stile riguarda Vicari, cioè chi organizza il materiale storico e umano per ricostruire gli eventi del G8 di Genova del luglio 2001. L’ideologia invece riguarda chi questo materiale è chiamato a visionarlo, cioè il pubblico e soprattutto la critica. Una visione del film condizionata dall’ideologia, infatti, farà sì che lo stile di Vicari appaia diverso da quello che è, ovvero che ogni difetto si trasformi in pregio in nome di un accordo concettuale. Accadrà così che a qualcuno venga in mente di citare come referenti stilistici il Costa Gavras di «Z-L’orgia del potere», il Carpenter di «Distretto 13: le brigate della morte» (chissà perché) o addirittura Elio Petri in toto, senza particolari riferimenti a un film e quindi in nome di un’ideologia. Via, scendiamo un po’ dalle parti della realtà. L’unico riferimento plausibile è a «Fragole e sangue» di Stuart Hagmann del 1970, rarissimo esempio (forse unico) di film sulle lotte studentesche americane prodotto da una major, la MGM. «Diaz» racconta bruttissimi episodi realmente avvenuti, l’ennesimo misfatto senza colpevoli né condanne, una serie di eventi che in ogni caso non sono da addebitare a una parte sola dei contendenti (senza che né l’uno né l’altro possano comunque tirarsene fuori), ma pretende di farlo raccontando la vicenda da differenti punti di vista, riferendosi a modalità che chiameremo sperimentali, ma che erano tali nel momento in cui nacquero. Oggi, intendendo con esse restituire l’idea della cronaca nuda e cruda, appaiono datate e soprattutto inadeguate allo scopo. In «Diaz» lo si capisce benissimo quando Vicari inserisce nel film frammenti delle riprese amatoriali che tanti effettuarono con videocamere di differente professionalità e che, affiancate al girato del film, scavano un solco profondo tra verità e rilettura. Vicari, essendo ancora palesemente alla ricerca di una cifra stilistica personale, ha preteso di raccontare un film più vero del vero e in questo ha fallito. Va da sé che gli eventi di Genova avrebbero bisogno di una verità ufficiale e di qualche colpevole (non capro espiatorio). Ma non sarà «Diaz» a riaprire le danze.

I fatti sono abbastanza noti. Dopo la morte di Carlo Giuliani e le degenerazioni dei Black Block, lo stato di tensione venutosi a creare a Genova sfociò in un violento attacco delle forze di polizia alle scuole Diaz e Pascoli, assegnate ai manifestanti come punti di ritrovo con improvvisati posti letto. Nelle violenze, che colpirono 93 persone, furono colpiti anche giornalisti accreditati e almeno un ignaro viaggiatore che cercava solo un posto per dormire. Ora, se questo avrebbe potuto con molte difficoltà essere motivato dal clima di tensione generalizzato, ciò che appare del tutto inaccettabile è ciò che accadde successivamente nel carcere di Bolzaneto dove i fermati furono portati in attesa di giudizio. Qui, in uno stato non democratico, gli atti della polizia si sarebbero chiamati tortura. Naturalmente tutto questo è ancora in attesa di giudizio. O di prescrizione.

Si capisce che Vicari non tira sassi nello stagno e persino che non indirizza le sue invettive in una sola direzione. Si prende atto del buon risultato corale da parte di attori in massima parte poco conosciuti, ma in parte abituati anche alle luci della ribalta, con particolare riferimento all’ambiguo poliziotto un po’ umanitario e un po’ opportunista interpretato da Claudio Santamaria. Ci si può persino indignare (ci mancherebbe altro) per gli eccessi dell’una e dell’altra parte, tanto più censurabili se vengono da chi l’ordine lo dovrebbe ristabilire. Ma in «Diaz» la ricerca di stile prende comunque il sopravvento su ogni considerazione umana, sociale e politica. E siccome la ricerca di stile conduce a una lunga serie di passi indietro, l’operazione non può dirsi riuscita né nell’una né nell’altra direzione. Infine una considerazione sulle strategie di mercato: che senso ha far uscire a distanza molto ravvicinata «ACAB», «Romanzo di una strage» e «Diaz» se non quello di saturare il mercato e far sì che l’uno danneggi l’altro portando a una reciproca eliminazione?

DIAZ di Daniele Vicari. Con Elio Germano, Claudio Santamaria, Renato Scarpa, Jennifer Ulrich, Mattia Sbragia, Francesco Acquaroli, Fabrizio Rongione. ITALIA 2012; Drammatico, Colore