Pietà

Il diciottesimo film del sud coreano Kim Ki-Duk, «Pietà», vincitore del Leone d’Oro e del «Premio padre Nazareno Taddei» all’ultima mostra di Venezia, certamente non è fatto per far dormire allo spettatore sonni tranquilli. Ki-Duk, visionario, poetico, personalissimo indagatore dell’animo umano, non è un ottimista: pur intravedendo orizzonti più alti di quelli visibili, finisce sempre per scontrarsi con l’insostenibile leggerezza del genere umano, con le sue debolezze, con illusioni che fatalmente devono confrontarsi con la dura realtà.

La sua personalità, tormentata e complessa, mostra in «Pietà» una particolare disposizione alla sofferenza, al depistaggio dei sentimenti, a una sorta di disperazione che discende dalla manifesta incapacità di trovare soluzioni a problemi che appaiono insormontabili. Ma mostra anche l’accettazione di uno strano compromesso tra percorso interiore e modelli di rappresentazione. In effetti «Pietà» intende innestare la ricerca psicologica e, in un certo senso, spirituale sul filone particolarmente frequentato dal cinema coreano del cosiddetto vengeance movie, del quale Park Chan-wook è il massimo rappresentante. Ciò porta Ki-Duk a un’ambivalenza espressiva e soprattutto a una sorta di prevedibilità narrativa che potrebbe non essere l’ideale per quelle che erano le sue intenzioni originarie.

Lee Kang-do è un esattore della malavita incaricato di riscuotere i pagamenti di debiti consistenti contratti da artigiani e lavoratori impossibilitati a restituire quanto richiesto. La sua tecnica è semplice: invece di picchiare o di uccidere, preferisce mutilare i malcapitati rendendoli monchi, storpi e quant’altro di modo che l’assicurazione versi l’importo necessario a coprire il debito. Un giorno nella sua vita irrompe una donna, Jang Mi-sun, che lo implora di perdonarla per averlo abbandonato. Lui prima la tratta da povera pazza, poi si convince che si tratta veramente di sua madre e la prende con sé. L’idea della donna, però, è unicamente quella di vendicare la morte del figlio (quello vero), finito nel mirino di Lee e morto suicida. Pur di raggiungere lo scopo, pianificherà tutto minuziosamente spinta da una disperazione che sfocia in crudeltà.

Dobbiamo dire che negli ultimi tempi non ci era mai capitato di imbatterci in un film come questo, nel quale un andamento singolarmente altalenante presenta una situazione che prima lascia intravedere un percorso di malvagità e redenzione, poi insinua forti dubbi sulla reale identità dei personaggi, infine convoglia il tutto in un impietoso viaggio verso l’autodistruzione. In questo, naturalmente, gioca un ruolo determinante quella che potremmo chiamare la spinta ideale dei due protagonisti. Jang Mi-sun è una madre (ma non di Lee Kang-do) che non intende lasciare impunita la morte del figlio e, programmando tutto nei minimi particolari, non esita a inserire nel percorso anche la propria morte in quanto necessaria all’epilogo e funzionale all’eliminazione dell’assassino. Lei muore sapendo bene perché. Lee Kang-do, invece, è un figlio (ma non di Jang Mi-sun) che la vita ha condotto su una strada di distruzione e di cinismo. Nel momento in cui accetta la presenza di una madre, quindi si apre a un sentimento, diventa estremamente vulnerabile: in fin dei conti sarà ucciso proprio da questo sentimento per lui nuovo e, siccome lei non è quella che dice di essere, morirà senza sapere il perché.

Kim Ki-Duk dà conferme di stile e di profondità, ma secondo noi non riesce a gestire il doppio passo tra la storia di una vendetta e l’illusione di una redenzione. Il suo pessimismo lo porta a non risparmiare alcunché allo spettatore, aggredendolo con immagini di violenza inaudita e con particolari di straordinaria fisicità che, alla fine, allontanano un po’ l’idea che, in effetti, Lee Kang-do ha effettivamente svolto un percorso di redenzione.vResta ben chiaro soltanto il concetto che una società priva di valori e governata dal denaro ha preso la via più breve verso l’autodistruzione. Ma il simbolismo poetico di «Ferro 3» ha lasciato il posto a un cupo pessimismo che potrebbe essere l’anticamera del nichilismo.

PIETÀdi Kim Ki-Duk. Con Lee Jung-jin, Jo Min-soo, Kang Eun-jin, Woo Gi-hong, Jo Jae-ryong.SUD COREA 2012; Drammatico; Colore