Perché nell’ultimo film di Pupi Avati Dio è assente?

Caro direttore, ho visto in tv il film di Pupi Avati Il fulgore di Dony. Sono una grande estimatrice del Maestro bolognese e anche questa volta il lavoro mi è parso ben fatto e di ottimo spessore. Mi sono sembrati bravi i due attori protagonisti, sia la ragazzina, che era chiamata a recitare il ruolo della giovinetta qualunque, sia il ragazzo, che doveva misurarsi con un personaggio la cui involuzione poteva essere difficile da rendere.

Alla fine della proiezione mi sono sorpresa a considerare la completa assenza di Dio dalla vicenda: la scelta della ragazzina di dedicarsi al giovane segnato da un gravissimo handicap e destinato a peggiorare avrebbe potuto essere dettata per esempio da un «credo» religioso che sembra estraneo a Dony, a Marco e alle loro famiglie. La vita secondo lo Spirito è quasi scomparsa dagli orizzonti della realtà di tutti i giorni, quale ce la presentano film o fictions televisive, a meno che non si tratti di opere dedicate a Cristo, a un personaggio biblico, a un santo, a un pontefice: insomma a un «addetto ai lavori».

Sinceramente l’esclusione della sfera del divino mi aveva colpita. Poi per caso mi sono imbattuta in un’intervista rilasciata da Avati a «Famiglia cristiana», nella quale egli afferma: «La sfida del film è rendere vera, credibile, azzardare addirittura che diventi condivisibile la scelta di Dony. Una scelta probabilmente anacronistica, contro tutto e tutti, in un presente che pare premiare solo l’egoismo. Non sapremo mai se Dony Chesi abbia letto il discorso della montagna del Vangelo di Matteo o abbia ascoltato le sollecitazioni di Papa Francesco, tuttavia in quel “beati i misericordiosi perché troveranno misericordia c’è tutto il suo fulgore”». Ho copiato testualmente e mi domando: se si ha questa sensibilità, perché il lavoro cinematografico non la lascia vedere? Ho letto anche la tua recensione su «Avvenire» e mi pare che la componente «cristiana» non sia apparsa evidente nemmeno a te. Altri giornalisti, dopo le parole di Avati,  hanno definito Il fulgore di Dony come «film ispirato alle Beatitudini».

Che se ne deve ricavare? Avati ha forse avuto paura di dare un’impronta evangelica a un copione capace di aprire una riflessione seria sui valori della vita? Temeva di «scivolare» in una vera e propria catechesi? Certo, il tema della misericordia è centrale, come centrale è quello dell’amore e non c’è dubbio che entrambi siano valori fondanti della fede cristiana, così come, per bocca di Cristo, il malato da visitare è Cristo stesso. Il cinema non può fare suo tutto questo?  Bastava  poco: inquadrare un Vangelo aperto sulla scrivania di Dony, magari alla pagina incriminata di Matteo, o farla vedere uscire da una chiesa. Non mi pare che nell’opera trasmessa in tv ci siano richiami di questo tipo e neppure che la protagonista preghi. Peraltro Avati è in ottima compagnia perché nemmeno Hildegard von Bingen lo fa nel famosissimo Vision di Margaretha von Trotta. E dire che pregare è il «primo lavoro» di una badessa benedettina. Torniamo al nostro Pupi e alla sua ultima fatica: viste le dichiarazioni rilasciate, perché Dio è assente dalla sua pellicola? Hai una spiegazione? Potresti intervistarlo e chiederglielo?

Elena Giannarelli

Cara Elena, con molto ritardo provo a rispondere alla tua lettera. Altri temi hanno preso il sopravvento nelle ultime settimane. Ma anche questo, al di là dell’apparenza, non è di minore interesse, almeno per me che di televisione mi occupo quasi quotidianamente per la rubrica di critica televisiva che, come ricordi anche tu, curo su «Avvenire». E poi, grazie alla tecnologia, Il fulgore di Dony è tuttora visibile su RaiPlay.

Premetto, e tu Elena lo sai, che a me il film di Pupi Avati è piaciuto. Premetto anche che, come ho imparato dal gesuita studioso di cinema padre Nazareno Taddei, il regista è la persona meno indicata a cui chiedere spiegazioni sul proprio film. Ecco perché declino l’invito a intervistare Pupi Avati e provo a darti la mia di spiegazioni, anche se molto meno autorevole. Per chi non l’avesse visto, dico che Il fulgore di Dony, andato in onda su Rai 1, racconta la storia di una liceale bolognese, mingherlina, brava a scuola e a danza, con la passione per la scrittura, costretta dai genitori a un colloquio con un neuropsichiatra, perito del tribunale dei minori, per raccontare del suo rapporto con Marco, un coetaneo che a causa di un incidente sugli sci ha subito un danno neurologico irreversibile che lo fa regredire mentalmente e fisicamente.

Da questo racconto parte un lungo flashback in cui Dony rilegge il suo essersi innamorata di colpo di Marco prima dell’incidente e poi il percorso drammatico, non privo di dubbi e di difficoltà, che l’ha portata a restargli vicino. Avati ha il tocco leggero, ma non rifugge i problemi. La situazione per Dony è difficile da accettare. Non c’è buonismo che tenga. Solo con il tempo la ragazza prende coscienza dei propri sentimenti e del proprio ruolo a fianco di Marco. A questo punto, se vale il discorso di prima, lasciamo perdere se Avati ha detto di essersi ispirato alle Beatitudini. Stiamo al film così com’è e al fatto che sancisca la vittoria dell’amore sul pregiudizio e sulla paura di ciò che è diverso. Di fatto Dony (che sta per Donata) è una misericordiosa, anche senza ispirarsi direttamente al Vangelo. E questo Avati non lo ha certo escluso per paura di mostrare la propria fede, ma piuttosto per dire che certi atteggiamenti e certi valori sono anche pienamente umani e possono essere alla portata di tutti.

Insomma, non importa essere cristiani per essere misericordiosi. C’è una bontà che è insita nell’essere umano, basta aiutarla ad emergere. È ovvio poi, ma questo esula dal film, che i credenti sappiano da dove arrivi.

Andrea Fagioli