Ci vuole più attenzione alle condizioni di vita dei detenuti
Caro direttore, gli organi di informazione, i saggi e i sapienti da salotto buono, coloro che guidano e conducono le danze, ci costringono a ragionare con la pancia, mai con la testa, forse mai con il cuore. Quando il dibattito è inerente al carcere, c’è sempre conflitto di interessi, di corporazioni contrapposte e divergenti, di roboanti filippiche nazional popolari, molto in auge al bar sport, in particolare alla bouvette in Parlamento.
Non c’è giorno che sul pianeta sconosciuto più di qualcuno abbia da elargire la propria ricetta ricostituente, per poi accorgerci che la galera è nuovamente alle corde, stritolata da quel famoso problemino endemico a tutte le amministrazioni penitenziarie, che sta riportando a livelli di non sopportabilità il mostro del sovraffollamento, che ha una ricaduta esagerata sulle persone detenute che in carcere scontano (si presume con dignità) la propria condanna, ma anche e soprattutto sugli operatori, che per risolvere problemi che s’accatastano uno sull’altro senza tregua né soluzione, rischiano di rimanere impigliati in una apnea asfissiante che non produce nulla o quasi, nonostante professionalità e buona volontà.
Ho l’impressione che una certa criticità sociale diligentemente alimentata dai pregiudizi non fa altro che perpetrare uno scollamento e un distacco dal proporre progetti, programmi, linee guida che tutelino le vittime del reato, ma che proprio da questa premessa possano essere generate nuove opportunità di riparazione e riconciliazione. Sappiamo chi è l’attore del reato, ma tranne richiedere inasprimenti delle pene e ipotetiche chiavi da buttare via, perdiamo contatto con la realtà di un territorio che include sfruttando le capacità di ognuno, perché la responsabilità sociale condivisa genera corresponsabilità, e ciascuno attraverso realtà e sensibilità differenti, attraverso ruoli e competenze definisce il senso comune.
Vincenzo Andraous
La ringrazio, caro Vincenzo, per richiamarci a un tema come quello del carcere, che ritengo anch’io di fondamentale importanza e sul quale si misura il grado di civiltà di un Paese. Sono d’accordo con lei che il sovroffollamento è il primo problema che rende disumana la detenzione e particolarmente difficile il lavoro degli operatori per favorire la rieducazione. Effettivamente, sappiamo chi entra in carcere, ma non sappiamo chi esce. Invece, dovremmo saperlo, perché il carcere non è finalizzato alla pena (che ci deve pur essere), bensì al recupero del detenuto. Molte volte, purtroppo, succede proprio il contrario, ovvero che la persona reclusa peggiori il suo stato a causa delle condizioni ambientali, ma anche, ad esempio, dell’impossibilità di svolgere un lavoro o comunque una attività all’interno degli istituti. C’è poi l’annoso problema della carcerazione preventiva con una marea di detenuti in attesa di giudizio. A complicare il tutto, in tempi più recenti, la presenza di molti stranieri che ha comportato nuovi problemi di lingua, di cultura e di religione. Insomma, l’attenzione al carcere va sempre tenuta alta allo scopo di contribuire, per dirla con il cardinal Martini, a far nascere del bene anche da situazioni sbagliate.
Andrea Fagioli