Abuso di simboli sacri per propaganda elettorale
Egregio direttore, nelle pagine di alcuni giornali, è apparsa, nei giorni scorsi, una propaganda elettorale della Lega Nord Salvini, con una sconcertante raffigurazione suddivisa in due parti, quasi simmetriche, per distinguere, in modo provocatorio, le formazioni politiche che dovrebbe simboleggiare. A sinistra l’immagine di una lavagna scolastica con un chiodo di lato, sulla parete, senza niente appeso: rappresenterebbe «la Toscana di sinistra che dimentica i nostri valori». A destra, la stessa immagine con un crocifisso appeso al chiodo al lato della lavagna: ritrarrebbe «la nostra Toscana (cioè di destra) che difende i nostri valori». Si tratta, a mio parere, di una campagna iniqua, rispetto ad una simbologia – il crocifisso – strumentalmente mostrato e utilizzato per puri scopi elettorali. La «fede» ed i valori a cui fare riferimento, sono espressi non tanto dai simboli, seppur significativi, ma dalla «testimonianza», cioè dalla dimensione interiore dell’uomo (credente) e dal suo agire per edificare una vita sociale, economica e politica il più possibile ispirata dagli insegnamenti evangelici, comunque non identificata in un sistema «di parte» della realtà politica italiana.
Arrigo Canzani
È necessario far valere i principi costituzionali
Caro direttore, l’indizione delle elezioni a marzo ci impone, prima di essere travolti dalla concitazione della campagna elettorale, una riflessione sui criteri che dovrebbero guidare le nostre scelte di voto.
L’occasione ce la offre una personalità stimata come il ministro Calenda, che in un’intervista al Corriere della Sera invoca come primo impegno della prossima legislatura una riforma della Costituzione per mezzo di una assemblea costituente. «La sicurezza nazionale – dice – viene messa a rischio da un sistema che rallenta l’implementazione delle decisioni, favorisce il prosperare di particolarismi e ci trasforma nella Repubblica dei ricorsi al Tar e dei feudi locali».
Viene voglia di dargli ragione, perché indubbiamente resistenze burocratiche, corporativismi e interessi personali ostacolano spesso le migliori innovazioni legislative o le migliori decisioni governative. Ma in realtà, se, al di là delle contingenze o delle conclusioni affrettate, ci fermiamo a considerare le prevedibili conseguenze di simili proposte, ci accorgiamo che si tratterebbe di rinunciare a principi fondamentali non solo delle nostre istituzioni, ma anche della nostra civiltà: il principio di legalità e il pluralismo. Che infatti l’operato delle pubbliche amministrazioni sia sottoposto al controllo giurisdizionale, che i diritti dei cittadini siano sempre tutelabili in giudizio, che le stesse scelte legislative siano suscettibili di verifica di conformità alla Costituzione (art, 24, 113, 134 ss.), sono non soltanto norme di base del nostro patto costituzionale, ma prima di tutto principi costitutivi del nostro rapporto con la società e con lo stato. Lo steso vale per il riconoscimento e la garanzia dei diritti inviolabili dell’uomo «sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità» (art. 2), con la conseguenza della garanzia di una serie di autonomie, comprese quelle locali.
Quindi, pur dando il giusto peso alle critiche per gli abusi, gli squilibri, i ritardi che determinano conflitti fra questi principi ed il funzionamento dello stato, ci si deve guardare dalle tentazioni di manomettere o addirittura emarginare quelle garanzie. Per chi ha una certa consuetudine con l’esperienza di coloro che contribuirono a fondare il nostro sistema istituzionale, è facile ricordare l’opera dei costituenti cristiani, ed in specie di Giorgio La Pira, a cui si deve la formulazione di gran parte delle norme sopra citate. E ricordare come quel contributo non derivò da considerazioni tecniche, o di opportunità politica, o di difesa di interessi pur legittimi, ma da una lunga meditazione sui «Principi» (come appunto s’intitolò la rivistina semiclandestina pubblicata sotto le minacce fasciste) che La Pira ricavò dai più basilari insegnamenti della ragione e della fede, per richiamare i cristiani e gli uomini di buona volontà a ricostruire la civitas non appena usciti dalla tragedia della guerra.
È chiaro che non basta enunciare principi, se non si riesce a far funzionare la macchina dello stato e a far attuare le scelte del Parlamento e del Governo. Ma il rimedio non deve consistere nel mettere in discussione lo stato di diritto o il decentramento, bensì – oltre che a reprimere usi eccessivi, immotivati o ricattatori di poteri in sé legittimi – nel far valere principi costituzionali altrettanto validi, quali il principio di buon andamento della pubblica amministrazione, della responsabilità personale dei funzionari, dell’esercizio con disciplina ed onore delle funzioni pubbliche, della ragionevole durata dei processi, e prima di tutto dell’«adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale» imposto dallo stesso art. 2, non come semplice richiamo morale, ma come obbligo giuridico per ogni cittadino.
Un impegno per iniziative determinate ed autorevoli su questi punti varrebbe più – a mio parere – di ulteriori tentativi di così dette riforme di regime, destinate all’insuccesso e comunque portatrici di gravi e radicali spaccature nell’elettorato e nella società.
Piero Brunori
Essendo questa una pagina riservata ai lettori, preferisco questa volta lasciare più spazio alle lettere, anche perché mi dispiace che l’avvocato Brunori, che sempre ospitiamo molto volentieri, lamenti la compressione dei testi e l’eliminazione dei capoversi che potrebbero rendere incomprensibile lo scritto o comunque alterarne il senso. Limito pertanto questa risposta alla condivisione di quanto scrivono lo stesso Brunori e l’amico Canzani a proposito di due diverse questioni circa la campagna elettorale di cui questa settimana ci occupiamo anche con un commento di Pierandrea Vanni.
Andrea Fagioli