Tra il desiderio e il diritto di avere un figlio
«La fede è camminare nel buio», abbiamo sentito dire. E in questo momento effettivamente ci sentiamo molto disorientati, pur conservando la speranza di trovare un barlume di luce: la grande attenzione che l’opinione pubblica sta manifestando ai problemi della famiglia e della maternità ci appare spesso condizionata da motivazioni che non tengono conto del problema fondamentale, problema che non è certo politico, è infatti innanzitutto un problema esistenziale che dovremmo elaborare nel profondo della nostra coscienza prima di lanciare giudizi e di proclamare certezze assai discutibili. Chi come noi, credente o non credente, si è trovato a dover affrontare la situazione di una figlia colpita da tumore che rendeva impossibile una gestazione, sa bene che nella malattia è compreso anche uno stato d’animo che solo se è sorretto dalla speranza di un recupero esistenziale riesce a far accettare chemioterapie, interventi chirurgici, radiazioni e trattamenti devastanti di ogni genere. E pensiamo che non si possa negare che nel recupero esistenziale abbia una parte non confutabile il desiderio, per una giovane donna, di non perdere la possibilità di essere madre di un figlio suo.
Nostra figlia Beatrice aveva questo desiderio e prima di morire in una sua lettera a Zapatero scriveva «se ce la farò, magari potrò avere un bimbo, che sia certificatamente sano. Potranno analizzare tutto, fecondazione artificiale e poi, non potendo io sostenere una gravidanza, utero in affitto». Non scriviamo questo per strappare lacrime, bensì per chiedere rispetto ad una testimonianza di vita vissuta, di fronte alla quale ogni essere umano, politico o non politico credente o non credente, dovrebbe vergognarsi a condannare, a giudicare, a mettere in crisi le coscienze.
Certamente è necessario che coloro che hanno la responsabilità di emanare ed imporre le leggi si preoccupino di salvaguardare la dignità delle donne impedendo e condannando la mercificazione dell’utero, ma proteggendo ed aiutando le donne che volontariamente e non per denaro sono disponibili ad utilizzare i mezzi che la scienza propone per donare vita e speranza. Siamo sposati da quasi cinquant’anni e abbiamo impostato la nostra famiglia sui principi cristiani, ma crediamo fermamente che queste considerazioni possano essere condivise da tutti gli uomini di buona volontà.
Carissimi Elisabetta e Luigi, vi ringrazio per questa coraggiosa e sincera testimonianza. Grazie anche per la vostra esplicita richiesta di renderla pubblica. Sarò anch’io molto sincero, spero al pari vostro.
Per prima cosa faccio partecipi i nostri lettori del fatto che ci conosciamo da molto tempo e che ho seguito abbastanza da vicino la tragedia che qualche anno fa vi ha colpito con la perdita di uno dei vostri quattro figli, la giovane Bea. Un dramma che ho capito ancora meglio nei giorni scorsi per la scomparsa di una cognata, a causa di un tumore simile, anche lei ancora molto giovane.
Dico queste cose non per mettere in piazza fatti vostri e miei, che potrebbero anche non interessare i nostri lettori, ma per aiutare a capire che quando si parla della vita, della morte, della natura umana, della fede, delle persone in generale non sono tollerabili scontri, barricate o crociate. Men che meno giudizi o addirittura condanne. Dobbiamo avere la forza di ragionare con pacatezza nel rispetto di tutti. Possibilmente ricorrendo a quella tenerezza così cara a Papa Francesco, che non significa buonismo, bensì voglia di accogliere, capire e condividere. Anche di discutere. Tenendo però presente quella qualità tipicamente umana e umanizzante che è, appunto, la tenerezza. In questi giorni, invece, in tanti hanno fatto il possibile per favorire lo scontro, alzare i toni e il polverone.
Confesso che non mi sono piaciuti nemmeno certi momenti della manifestazione del Circo Massimo e soprattutto certe partecipazioni strumentalizzanti. Tra i primi ho trovato un clamoroso autogol l’annuncio dei due milioni di presenti. Così facendo si è buttato all’aria quanto di buono c’era in quella piazza dando l’idea di voler mostrare i muscoli e prestando il fianco ad attacchi su tutti i fronti. Insopportabile la presenza dei politici a mettere la propria bandierina e a dire una sciocchezza dietro l’altra ogni qualvolta venivano intervistati.
Come vedete, cari Elisabetta e Luigi, sto parlando con grande sincerità. La stessa con la quale vi dico di capire benissimo quanto sia importante per un malato essere «sorretto dalla speranza», ma di non condividere che per questo si possa arrivare all’utero in affitto. Ovvero a far sì che un desiderio diventi un diritto, mentre un figlio non è mai un diritto. So benissimo che voi avete sempre pensato alla vita come a un dono e in questo senso avete accolto con grande gioia l’arrivo di ognuno dei vostri figli così come avete sofferto tremendamente quando avete dovuto cedere una figlia al Paradiso (anche se lei, in questo momento, è accanto a voi più di prima, sia pure in modo diverso). Un uomo e una donna che mettono al mondo una nuova creatura partecipano al disegno stesso di Dio sull’umanità. È una delle cose più belle della nostra esistenza: l’amore che genera la vita.
Come si può allora pensare a una donna che porta impiantanto «tecnicamente» in grembo per nove mesi un esserino, figlio biologico di altri, ma che di lei, attraverso il cordone ombelicale, si alimenta, condivide emozioni e sentimenti, ma che una volta venuto alla luce lo consegna a un’altra donna, a volte addirittura a due donne o a due uomini. So che questi ultimi non sono casi a cui voi fate riferimento, ma anche questo va detto all’interno dell’attuale dibattito. Voi sapete benissimo quanto siano importanti nella crescita di un figlio le diverse figure della mamma e del babbo che si integrano e si completano. E qui la fede non c’entra. C’entra solo la natura umana.
Apprezzo che voi teniate a precisare che vada «condannata la mercificazione dell’utero». Ma se il ragionamento che ho provato a fare ha un qualche senso, non è questione di pagare o meno. Oltre al fatto che l’utero in affitto non può essere considerato «un mezzo che la scienza propone per donare vita e speranza». Vi abbraccio.
Andrea Fagioli