Il suicidio di un ragazzo omosessuale
Caro direttore, di fronte a queste tragedie non c’è niente da dire. Ci auguriamo solo che non avvengano nel silenzio e nell’indifferenza, e che possano non accadere più.
Come genitore sono convinto che la cosa più dolorosa e drammatica che possa accadere a un padre e a una madre sia la morte di un figlio. Non oso pertanto nemmeno pensare cosa possa provare un genitore di fronte al suicidio di un figlio poco più che ventenne. Per cui, davvero, possiamo solo pregare per il ragazzo, per i suoi genitori, i parenti e gli amici tra cui ben pochi sarebbero stati a conoscenza della sua omosessualità. È anche difficile per questo capire fino in fondo (sempre che sia possibile) i motivi del tragico gesto. Ragazzi come il ventunenne che si è ucciso a Roma hanno bisogno di aiuto diretto, di comprensione, di consigli, di accompagnamento, non di alzate di scudi per rivendicare una legge che da sola tra l’altro non risolverebbe certo il disagio di tanti giovani, che non riguarda solo la sfera sessuale. Sono tante le forme di «sucidio», anche se non disperate e cruente come il togliersi direttamente la vita, che mettono in atto tanti ragazzi a cui non siamo più in grado (noi genitori per primi) di trasmettere valori che possano comunque dare un senso alla loro esistenza. Questa morte non può essere utilizzata per sollecitare la legge sull’omofobia. Una tragedia del genere, come ha lasciato scritto il ragazzo stesso, deve spingere tutti «a fare i conti con la propria coscienza», ma non solo perché ci sono gli omofobi (che non dovrebbero esserci) bensì per chiederci cosa ciascuno di noi poteva fare e non ha fatto per quel ragazzo e per i tanti come lui, omosessuali e non.
Andrea Fagioli