In India per delocalizzare la produzione

Caro Direttore,sono convinto che l’iniziativa a cui hanno collaborato le Suore Francescane di Santa Elisabetta per dare occupazione a 70 ragazze in India si inserisca lodevolmente in un apostolato che vede insieme alla parola di Cristo anche l’aiuto concreto per un riscatto sociale che parte sicuramente dall’affrancamento da una vita di miseria materiale, ed il primo passo è la possibilità di lavorare.Completamente diverso mi sembra l’affiancamento in questa attività della Coop e della Regione Toscana. La Coop con le modalità del suo intervento ha saputo trasformare una azione di carità nel classico processo di delocalizzazione globale della produzione che vede i grandi capitali gettare nella disoccupazione i lavoratori italiani ed europei per lucrare sugli stipendi di fame in paesi come l’India. In questo caso il profitto della Coop è andato in pubblicità per aumentare i clienti dei suoi Ipermercati.

Niente vietava alla Coop di destinare risorse anche cospicue alla Chiesa missionaria per il libero uso di carità che questa intraprende quotidianamente. E se mai la Coop avesse voluto fare una attività di emancipazione dei lavoratori dell’India doveva trattarli con salari adeguati rompendo lo schema perverso e diabolico che vede lo sfruttamento selvaggio di interi popoli mantenuti nelle condizioni di miseria approfittando di stati dittatoriali come la Cina o di stati feudal-democratici come l’India, e non con il misero euro giornaliero! Uno stipendio da dipendente Coop avrebbe consentito di fare subito la dote a settanta ragazze anziché sfruttarle per anni!

Grave poi la «benedizione» di Martini, presidente di una Regione Toscana sotto elezioni, che ha difeso gli interessi del partito cui fa riferimento il quale trae vantaggio dalla crescita dei profitti delle Coop, ed alimenta, con questa operazione di sapore coloniale, un modo originale di globalizzazione made in S. Rossore: l’azzeramento dei diritti democratici con l’abolizione della preferenze, la sterilizzazione del consiglio regionale, la disgregazione delle famiglie con l’equiparazione a quelle di fatto, l’impedire l’emancipazione delle donne cercando in modo subdolo di favorire il permanere di orrende pratiche preistoriche, la grande campagna di privatizzazione dei servizi e della salute che sta riducendo il reddito rapidamente delle famiglie ed aumentando una povertà oramai diffusa.Lorenzo Della Cortel_coortis@yahoo.it

Sull’opportunità della presenza del presidente della giunta regionale Claudio Martini, all’inaugurazione della fabbrica di camicie a Madaplathuruth, in India, si può ovviamente discutere e anche dissentire. Di per sé mi sembra però una cosa positiva, che sottolinea l’impegno sinergico di varie realtà toscane. Del tutto fuori luogo sono invece le accuse all’Unicoop Firenze. Non si tratta qui di un processo di delocalizzazione della produzione (cioè l’andare a produrre là dove la manodopera costa meno), ma di un’attività di cooperazione e aiuto allo sviluppo, sul tipo di quelle del «consumo equo e solidale». Il problema, infatti, non era solo quello di trovare i fondi per costruire la fabbrica, ma di garantire la vendita del prodotto ad un prezzo equo. E questo è stato possibile perché l’Unicoop ha accettato di distribuire quelle camicie nei suoi centri commerciali. Tra l’altro, così come ha fatto negli anni passati per i presepi degli artigiani di Betlemme, si assume anche il rischio di non recuperare nemmeno quanto anticipato subito ai produttori. Che interesse ha nel fare questo? Certamente ne ha un ritorno di immagine, ma dobbiamo dare atto a questa grossa realtà cooperativa di mostrare una crescente attenzione per gesti di solidarietà, anche in collaborazione con il mondo missionario.

India, le camicie della solidarietà