Caro Direttore,il conflitto tra magistratura e politica (Governo), esploso di recente in forme virulente e, francamente, inaccettabili, provoca sgomento nel cittadino e incrementa la sfiducia nelle istituzioni, minando le fondamenta sulle quali si regge una società democratica. Sbaglia però chi pensa di risolverlo schierandosi con una parte e condannando l’altra, perché le colpe sono, a mio parere, da ricercare in entrambe. Sbaglia il politico che contesta il giudice perché ha condannato un amico ed esulta quando la stessa sorte tocca all’avversario, e sbaglia quando contesta addirittura al giudice il diritto di perseguire i reati. Ma sbaglia altresì il magistrato quando contesta al politico (Governo o Parlamento) il diritto-dovere di legiferare. Confesso, ad esempio, che non capisco la caparbia avversione all’istituto della divisione delle carriere quando questa regola è largamente adottata da paesi di antica e consolidata tradizione democratica.In un’intervista del 1998, pubblicata dall’editore Laterza, il prof. Giovanni Sartori, che non può certo essere sospettato di simpatia per questo Governo che, anzi, critica pesantemente, afferma che «La divisione delle carriere ha una sua ragione d’essere inoppugnabile: una cosa è l’accusa, un’altra il giudizio. Il magistrato giudicante deve essere al di sopra delle parti, quello inquirente è invece di parte. Aver confuso questi ruoli, consentire alle stesse persone di passare dall’una all’altra, ha creato un sistema malsano. E se una tesi o soluzione è giusta, poco importa quali ne siano i segreti intenti: resta giusta».Martino BardottiSienaE’purtroppo vero, caro on. Bardotti: il conflitto tra magistratura e politica, che dura ormai da un decennio, ha come conseguenza una diffusa sfiducia del cittadino nelle istituzioni. Ma direi di più: è un nodo che ha condizionato e ancora condiziona la nostra vita politica.In Italia esiste un problema giustizia, è innegabile. Ogni anno l’inaugurazione dell’anno giudiziario evidenzia una situazione estremamente difficile basti pensare alla durata media dei processi dovuta anche a carenza di organici, di strutture, di mezzi. Eppure è difficile perfino affrontarlo, perché è uno di quelli che subito divide, contrappone e determina toni alti, accuse e sospetti reciproci, col risultato che fino ad ora ogni tentativo di riforma organica si è arenato. Come uscirne? Serve prima di tutto spoliticizzare il problema. Una «giustizia giusta», amministrata da una Magistratura, soggetta solo alla legge e che è ma anche appare imparziale, non attiene né all’uno né all’altro schieramento: è legata al tipo di civiltà che vogliamo costruire. In questo spirito i politici e i magistrati devono ritrovare un loro ruolo chiaro e determinato. E non sarà poco, dopo molta confusione e innegabili invasioni di campo. E tanta perplessità tra la gente. Gli esempi non mancano: dal processo Andreotti, all’uso un po’ disinvolto dei pentiti, a atti che sono apparsi accanimento giudiziario; ma anche certe leggi, chiaramente «personali», approvate in gran fretta dall’attuale maggioranza. Eppure ultimamente segnali positivi, determinati anche dall’opera saggia e discreta del Presidente Ciampi, fanno sperare che «si possa arrivare ad una riforma ampiamente positiva e che ottenga il risultato voluto, di rendere più spedita e più funzionale l’opera della giustizia». E non sono segnali da poco. Basti pensare alla sospensione dello sciopero dei magistrati, al dialogo tra l’Associazione nazionale magistrati e la maggioranza e tra questa e l’opposizione, lo sforzo per trovare punti convergenti di modifica alla riforma della giustizia in discussione alla Camera (anche sulla distinzione delle funzioni dei magistrati).Speriamo solo che qualche colpo di testa (o di lingua!), sempre possibile in ambedue i campi, non rimetta tutto in discussione. E sarebbe grave: sia la politica che la magistratura perderebbero ulteriormente di credibilità.