Iraq, ecco perché dobbiamo rimanere

Caro Direttore,in seguito al sondaggio che state costruendo sul vostro sito internet, mi chiedo il perché dovremmo continuare a rimanere in Iraq. Si dice giustamente che occorre rimanere in Iraq perché, se dovessimo ritirarci, le conseguenze potrebbero essere ancora peggiori, ma non si discute mai sulla necessità dell’intervento in Iraq. Il fatto che il terrorismo internazionale contribuisca ad alimentare questa guerra è solo la conferma dell’importanza strategica dell’Iraq nell’ottica di una guerra totale all’Occidente (incarnato anche da Israele) e della condivisione di un obiettivo che lo stesso Osama bin Laden ricerca ossessivamente: un paese da governare (indirettamente, si capisce).

Dunque, dovrebbe essere chiaro a tutti ciò che l’Iraq rappresenta veramente: la partita tra il terrorismo e l’Islam moderato, partita che segnerà il futuro del medioriente e che, per questo, il terrorismo non vuole perdere, come ha ampiamente dimostrato attaccando il quartier generale dell’Onu in Iraq in agosto, uccidendo i capi religiosi favorevoli alle forze alleate, attentando alla Croce Rossa e facendo stragi di civili volte a piegare con la paura il favore che il popolo iracheno nutre verso gli occupanti.

E di fronte a questo scenario l’Europa che fa? Batte le mani, nella persona di Romano Prodi, a Zapatero che antepone le ragioni di bottega ai doveri internazionali e comincia a riportare le truppe spagnole impegnate in Iraq a casa, da subito, rimangiandosi così quanto detto all’alba della sua elezione, cioè che avrebbe atteso almeno il 30 giugno. Con il rischio di produrre un effetto domino e di spaccare ulteriormente destra e sinistra europea nella lotta al terrorismo (la sinistra italiana ne è un esempio).Concludo osservando l’alta percentuale nel sondaggio di Toscanaoggi di chi lega la giustezza del nostro impegno per la pace in Iraq ad una ulteriore risoluzione Onu. Io certamente la auspico anche se vorrei ricordare a tutti che una risoluzione Onu che legittima e giustifica l’intervento italiano in Iraq c’è già. È la risoluzione 1511 che invito il direttore a pubblicare per intero.Luca CavalliniPisa

La distinzione che lei fa, caro Cavallini, tra fondamentalismo islamico e Islam moderato è essenziale per capire e per agire. Anzi, a suo parere, l’attuale fase della guerra in Iraq è una tappa per la conquista progressiva da parte del fondamentalismo dei Paesi islamici moderati. L’arma con cui questa lotta si conduce è il terrorismo che colpisce quei paesi che, non solo in Occidente, contrastano questo disegno. L’Iraq quindi come banco di prova. È allora importante chiedersi dopo tanti errori, e orrori, con quali strategie operare e quali soluzioni ricercare per contrastare questo disegno. Serve ritirare subito i contingenti militari? Penso proprio di no. Il problema sarebbe rimosso ma non risolto. E l’Iraq, come ha scritto Romanello Cantini nell’editoriale della scorsa settimana, «rimarrebbe lì con il suo vuoto di potere, con il suo caos presente e con il futuro indecifrabile»; inoltre così si segnerebbe «il trionfo di Al Qaeda» e l’Iraq diventerebbe «il nuovo santuario del terrorismo internazionale, dopo la cacciata dall’Afghanistan». Che fare allora? Riconoscere finalmente che la guerra è stata un errore di cui ora paghiamo le conseguenza e che le armi da sole non sono più in grado di risolvere una situazione tanto complessa e drammatica e che la politica deve prendere il sopravvento. È quindi il tempo di coinvolgere appieno le Istituzioni internazionali, prima fra tutte l’Onu, in funzione di un progetto politico, credibile e possibile, che tenga conto prima di tutto del bene del popolo iracheno e impegni la Comunità internazionale, anche sul piano militare. S’impone ormai una svolta «netta e evidente» che, richiesta da più parti, in questi giorni sembra prendere consistenza. Certo, l’impresa non è facile, ma merita impegno fattivo e piena colaborazione, anche perché, realisticamente, altra soluzione non c’è.

Iraq, tutti se ne possono andare nessuno può tirarsi fuori

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