Pacifismo a senso unico

Caro Direttore,gli antichi romani usavano un sillogismo per giustificare il loro modo di gestire il mondo «Se vis pacem para bellum» (se vuoi la pace prepara la guerra). Questo pensare romano è continuato sino ai giorni nostri: gli anni della «guerra fredda» sono stati dominati dal pensiero di difendersi (o forse prevenire, è detto meglio) da un attacco del cosidetto nemico. Veniamo al comportamento odierno dei cristiani. Logicamente siamo contro tutte le guerre, ma c’è qualcosa nel nostro mettere in pratica questa affermazione che mi lascia perplesso. Ho visto che le bandiere multicolori della pace (che ho acquistato anch’io) sono state collocate fuori delle finestre solo dopo l’inizio della guerra in Iraq. Mi chiedo come mai non sono esposte per la guerra in Cecenia, in Congo, Sudan, Angola, Filippine, Tibet, ecc. Eppure in Cecenia ci sono stati 100 mila morti (in maggioranza i deboli: donne, bambini, anziani) su di una popolazione di 1 milione di persone; in Sudan sono stati uccisi due milioni di persone (in prevalenza cattolici), un milione in Congo, 10 mila bambini in Tibet, ecc. Non si è vista una marcia della pace per questi popoli, né uno sciopero, né una veglia di preghiera: non sarà che le bombe Usa fanno più male delle bombe di altre nazioni? Può essere che invece che «operatori di pace» siamo diventati dei «pacifisti» e forse a senso unico? Esiste poi un’altra guerra che si combatte nel nostro paese, in Italia: è la guerra dell’aborto. Da quando è stato istituzionalizzato questo omicidio legale, sono 2,5 milioni i bambini uccisi nel nostro paese: una cifra spaventosa. Non ci sono state bandiere al vento, marce, scioperi, veglie di preghiera per questi innocenti, eppure per la Chiesa e di conseguenza per i cristiani questo è un peccato mortale: omicidio. Che dire di quei partiti politici, delle associazioni che si professano «cattoliche» e che organizzano convegni, marce e proteste contro la guerra in Iraq e si scordano dell’aborto?Vincenzo BenvenutiPontassieve (Fi) Gli interrogativi che lei pone, caro Benvenuti, meritano un’attenta riflessione. Operare per la pace – soprattutto per un cristiano – non può limitarsi all’indignazione e alla protesta, naturali e legittime, quando una guerra combattuta, come quella in Iraq, ci viene incontro con tutti i suoi orrori. Non per nulla il Vangelo ci chiama ad essere operatori di pace, a costruirla, diffondendo prima di tutto una cultura della pace, che si fa mentalità, metro di giudizio, atteggiamento interiore di fronte alle controversie a tutti i livelli. Questo richiede però una costante educazione alla pace. Sia sottolineandone il valore, sia ricordandone i pilastri che lo sostengono: la verità, la giustizia, l’amore, la libertà. E il perdono. Ma la Chiesa ci dice anche qualcosa di più, qualcosa che impegna in prima persona, che non può essere demandato ad altri, che non coinvolge solo i grandi di questo mondo. La pace nasce e si diffonde da un cuore pacificato che dà valore alla vita umana, che rispetta ogni uomo, che non vede nell’altro sempre e comunque un potenziale nemico. Proprio perché esige una continua conversione la pace è difficile e mai del tutto stabile. Per questo il cristiano, mentre si impegna a costruirla con tutte le sue forze, la chiede incessantemente a Dio che solo può mutare i cuori. La sua costruzione però subisce difficoltà anche dalla parzialità sulla pace che non può essere invocata in alcune situazioni, mentre si tace su altre. Per chi l’ama davvero guerra, terrorismo, violenza non possono essere dimenticate o minimizzate, a seconda delle parti in campo. Le situazioni a cui lei fa riferimento sono troppo spesso avvolte in un silenzio che diventa, al di là delle intenzioni, complicità. Come pure bisogna ugualmente affermare che ogni negazione della vita, e l’aborto ne è espressione evidente e diffusa, è una forma di guerra non meno riprovevole, perché ormai trova scarsa ribalta. Per costruire e difendere davvero la pace a volte (o spesso?) bisogna saper superare le simpatie e le appartenenze.