Fare il proprio dovere sul posto di lavoro
Caro direttore, a proposito della «normalità» nel fare il proprio dovere, richiamata nell’editoriale sul naufragio della Costa Concordia, vorrei raccontare brevemente una mia recente esperienza da dipendente pubblica.
Mi sono trovata, per un banale incidente, con una gamba ingessata dal 28 dicembre scorso e dopo un primo periodo di assenza dal lavoro ho maturato considerando il mio tipo di attività, del tutto sedentaria la volontà di tornare a lavorare anche spinta dal desiderio di superare il pesante «isolamento» causato un handicap fortunatamente temporaneo, ma comunque indigesto per chi, come me, fa dell’attività una «fede». Così ho consultato il mio medico che, sorpreso per la mia inusuale richiesta e magari preoccupato per eventuali imprevisti da essa conseguenti, ha comunque lasciato da parte la freddezza professionale e sciolto ogni riserva, dimostrando di comprendere il mio bisogno di essere in qualche modo utile anche in simili condizioni.
Così sono tornata sulla mia poltrona di portiera in un grande ospedale cittadino: cosa normale per me, una bestemmia per alcuni colleghi che si sono meravigliati e non poco di tale scelta. Chi mi ha visto come matta, chi ha pensato che il controcertificato che mi è stato fatto per tornare al lavoro fosse addirittura illecito, e via dicendo… ma c’è stato anche chi, conoscendomi e devo dire mi ha fatto piacere non si è meravigliato più di tanto, dicendomi che avevo fatto bene, chi ha sorriso e mi ha fatto gli auguri e chi mi ha fatto complimenti per il mio senso di servizio desueto nel settore pubblico dove troppo spesso anche se il lavoratore è sano il lavoro viene sopportato come la solita minestra da ingurgitare, il senso del dovere è piuttosto remoto e l’obiettivo è «far correre» l’orologio il più rapidamente possibile per timbrare l’uscita e darsela a gambe levate per poi ricominciare il giorno dopo, abbrutendosi sempre di più.
A chi mi ha detto, anche piuttosto in malo modo, che al mio posto avrebbe fatto altro che venire al lavoro con una gamba ingessata, ho risposto buttandola sullo scherzo («Ora ti tiro dietro una stampella!»), ma c’era in me anche un po’ di compassione e di amarezza per il senso di responsabilità oggi sempre più raro o addirittura inesistente soprattutto in certi ambienti di lavoro mentre oggi prevale piuttosto la propria individualità, l’essere un’isola accanto ad altre in un mare di indifferenza, egoismi, interessi vari, incomunicabilità e mancanza di autocritica. Eppure basta poco perché un briciolo di positività si imponga agli occhi e al cuore degli altri, suscitando in alcuni un sorriso dietro al quale c’è qualcosa di diverso, una nuova sintonia: la comune convinzione che un altro modo di lavorare è possibile.
Lettera firmata
Ti ringrazio per questa testimonianza e rispetto la tua richiesta di anonimato. Per il resto non posso che ribadire quanto scritto in quell’editoriale che tu stessa richiami: se fare il proprio dovere è diventato un atto di eroismo, significa che i nostri valori si sono davvero annacquati. Ma nella tua lettera ci sono anche altri elementi che preoccupano e tra questi il lavoro vissuto come un peso. C’è davvero bisogno di esempi contrari, di chi, come dici tu, è convinto «che un altro modo di lavorare è possibile». Io ne sono convinto quanto te.
Andrea Fagioli