Il pane quotidiano è «nostro», non «mio»
Quante madri e quanti padri, ancora oggi, vanno a dormire con il tormento di non avere l’indomani pane a suffcienza per i propri figli! Le parole di Gesù assumono una forza nuova. Non è un esercizio per asceti; parte dalla realtà, dal cuore e della carne delle persone che vivono nel bisogno, o che condividono la condizione di chi non ha il necessario per vivere. Il pane che il cristiano chiede nella preghiera non è il «mio», ma è il «nostro» pane. Così vuole Gesù. Ci insegna a chiederlo non solo per sé stessi, ma per l’intera fraternità del mondo. Se non si prega in questo modo, il «Padre nostro» cessa di essere una orazione cristiana. Questa preghiera contiene un atteggiamento di empatia e di solidarietà. Nella mia fame sento la fame delle moltitudini, e allora pregherò Dio finchè la loro richiesta non sarà esaudita. Così Gesù Cristo educa la sua Chiesa a portare a Dio le necessità di tutti. Il pane che chiediamo al Signore è quello stesso che un giorno ci accuserà. Ci rimprovererà la poca abitudine a spezzarlo con chi è vicino, la poca abitudine a condividerlo. Era un pane regalato per l’umanità, e invece è stata mangiato solo da qualcuno: l’amore non può sopportare questo. Una volta c’era una grande folla davanti a Gesù: era gente che aveva fame. Gesù domandò se qualcuno avesse qualcosa, e si trovò solo un bambino disposto a condividere la provvista: cinque pani e due pesci. Gesù moltiplicò quel gesto generoso (cfr. Gv 6,9).
Quel bambino aveva capito la lezione del «Padre nostro»: che il cibo non è proprietà privata, ma provvidenza da condividere, con la grazia di Dio. Il vero miracolo compiuto da Gesù quel giorno non è tanto la moltiplicazione – che è vero – ma la condivisione: date quello che avete e io farò il miracolo. Egli stesso, moltiplicando quel pane offerto, ha anticipato l’offerta di Sé nel Pane eucaristico. Infatti, solo l’Eucaristia è in grado di saziare la fame di infinito e il desiderio di Dio che anima ogni uomo, anche nella ricerca del pane quotidiano.