La compassione, un antidoto alla «cultura dello scarto»
L’identità e l’impegno del medico non si fonda solo sulla sua scienza e sulla sua capacità tecnica, ma anche e soprattutto sul suo atteggiamento compassionevole verso quanti soffrono nel corpo e nello spirito. Nella nostra cultura tecnologica e individualistica, la compassione non è sempre ben vista; a volte è addirittura disprezzata perché si ritiene di sottoporre la persona che la riceve ad un’umiliazione.
E non manca neppure che si nasconde dietro a una supposta compassione per giustificare e approvare la morte di un malato. Ma non è così. La vera compassione non emargina nessuno, non umilia la persona, non la esclude, e tanto meno considera la sua scomparsa come qualcosa di buono. Ciò significherebbe il trionfo dell’egoismo, di quella «cultura dello scarto» che rifiuta e disprezza le persone che non soddisfano determinati canoni di salute, di bellezza e di utilità.
La compassione è la risposta adeguata al valore immenso della persona malata, una risposta fatta di rispetto, di comprensione e tenerezza, perché il valore sacro della vita del malato non scompare né si oscura mai, bensì risplende con più forza nella sua sofferenza e nella sua vulnerabilità. Come si capisce bene la raccomandazione di San Camillo de Lellis per assistere i malati. Dice così: «Mettete più cuore in queste mani». La fragilità, il dolore e la malattia sono una dura prova per tutti, anche per il personale medico, sono un appello alla pazienza, al soffrire-con. La tradizione medica cristiana si è sempre ispirata alla parabola del Buon Samaritano.
E’ un identificarsi con l’amore del figlio di Dio che «passò beneficando e risanando tutti gli oppressi» (At 10,38). Quanto fa bene all’esercizio della medicina pensare e sentire che la persona malata è il nostro prossimo, che è della nostra stessa carne e del nostro stesso sangue, e che nel suo corpo lacerato si riflette il mistero della carne di Cristo stesso. «Ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo dei miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (Mt 25,40).