Commento alle letture della domenica: la medicina della misericordia

«Se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli» (Mt 5,20). I farisei e gli scribi erano preoccupati dell’osservanza formale dei precetti della Torah, senza cogliere però il senso pieno della legge. Ecco perché erano spietati nei confronti dei fratelli. Ma «il giudizio sarà senza misericordia contro chi non avrà avuto misericordia. La misericordia ha sempre la meglio sul giudizio» (cfr. Gc 2,13). Nella concezione del diritto romano la giustizia era raffigurata come l’equilibrio di due piatti di una bilancia. Il Vangelo parla invece di una giustizia che fa percepire le vertigini, nello sperimentare l’abisso di misericordia del nostro Dio. È come dire che solo il collirio di uno sguardo amorevole e la larghezza del cuore esprimono a pieno la figliolanza con il Padre Celeste. San Giovanni XXIII, a questo proposito, aprendo il Concilio Vaticano II nel 1962 consegnava l’auspicio di un volto nuovo di Chiesa, meno giudicante e più corrispondente all’atteggiamento del Suo Maestro: «Quanto al tempo presente, la Sposa di Cristo preferisce usare la medicina della misericordia invece di imbracciare le armi del rigore; pensa che si debba andare incontro alle necessità odierne, esponendo più chiaramente il valore del suo insegnamento piuttosto che condannando» . Questo chiarore del discorso alla luna è di grande attualità. Gesù, rafforzando la legge, illumina il peccato di ogni uomo. Così, scardina il formalismo di chi si ritiene a posto. In particolare, quello del fariseo che nella preghiera fatta al Tempio ringraziava per la sua perfetta coerenza e, a differenza del pubblicano, era convinto di non aver bisogno di misericordia.Questa prospettiva non cancella la bontà dei comandamenti, che per il cristiano delimitano i confini del cammino e preservano da pericolosi inciampi: «se vuoi osservare i suoi comandamenti, essi ti custodiranno; se hai fiducia in lui, anche tu vivrai» (Sir 15,15).Nello stesso tempo però, nel Vangelo c’è uno sguardo nuovo che rivela quanto è «beato chi cammina nella legge del Signore» (cfr. Sal 118). Siamo ancora abituati a un’osservanza dei precetti che mira a sentirsi nel giusto, piuttosto che a vivere l’amore, che è l’unico vero compimento della legge (cfr. Rm 13,10). Chi vive la Carità non si sente mai a posto, ma ha la gioia nel cuore. Sulla terra solo un uomo ha ricevuto la garanzia di entrare nel Regno ed essere con Gesù in Paradiso: il buon ladrone. Ecco che significa la frase: «quelle cose che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrarono in cuore di uomo, Dio le ha preparate per coloro che lo amano» (cfr. 1 Cor 2,9). La profezia di Isaia (cfr. Is 64,3) si è compiuta infatti in Cristo Gesù: «Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo fece peccato in nostro favore, perché in lui noi potessimo diventare giustizia di Dio» (2 Cor 5,21). Probabilmente l’unico modo per lasciarsi catturare da questo nuovo criterio di giustizia è l’amore familiare. Con chi amiamo davvero infatti siamo disposti a stracciare il conto e quindi a trasformare la giustizia in misericordia. È quello che quotidianamente fa il cuore di una madre verso suo figlio, o magari il cuore di una figlia verso la mamma malata di alzheimer. Se la nostra Chiesa diventerà più famiglia, senza dubbio, sarà facile acquisire questo sguardo.*Vicario del Vescovo di Grosseto