Cristo non condanna ma salva l’umanità
Vi è un detto che da qualche anno viene utilizzato, a volte in sordina, a volte spudoratamente, per commentare alcuni atteggiamenti, specie in campo politico, ma non solo: «se tutti rubano, nessuno ruba», disinnescando in questo modo il problema, applicando così un altro proverbio più tradizionale: «mal comune, mezzo gaudio». È il caso di dire che questa non può essere la chiave di lettura del vangelo di oggi (Gv 8,1-11), anche se a prima vista lo potrebbe sembrare. Non può bastare il dire o predicare di non lanciare pietre contro gli altri dato che ognuno ha degli scheletri nell’armadio che potrebbero saltar fuori, perché in questo caso si tratterebbe semplicemente di una forma di omertà, appunto, un non impicciarsi per evitare di trovarsi inguaiati a propria volta. Può anche darsi che i presenti che se ne vanno «a cominciare dai più anziani» (v.9) lo facciano davvero per questo motivo, ma il Vangelo è annuncio per una conversione e non un’incitazione all’insabbiamento.
La conversione che è richiesta alla donna, ai presenti e anche a noi che ascoltiamo è accorgersi di chi è Cristo, colui che non condanna, e non condanna certo perché ha a sua volta qualcosa da nascondere, ma perché nell’alternativa fra salvare la Legge e salvare la vita dell’uomo, sceglie la vita dell’uomo. In fondo non è che la riproposizione del dramma del figlio prodigo ascoltato domenica scorsa (cf. Lc 15,1-32), con Cristo nella parte del padre, di fronte a una figlia perduta e altri che da fratelli, come avrebbero dovuto essere, si trasformano in accusatori con in più, dalla propria parte, la norma divina. Se il fratello maggiore poteva motivare la sua opposizione solo con sentimenti di stizza o rivalsa, qui abbiamo l’assistenza oggettiva della norma che permette ai presenti di non sentirsi coinvolti più di tanto. E invece Cristo li coinvolge, perché la Legge non è un bisturi asettico che qualcuno possa maneggiare in modo distaccato e professionale; essa, come del resto la Parola tutta, giudica in primo luogo chi la proclama, e di fronte alla Legge, alla norma assoluta, nessuno può trovare la sua compiutezza. Siamo infatti incompiuti per definizione, mentre la legge si ferma a realtà oggettive: sei o non sei così, fai o non fai così? Ed è difficile dire di fronte alla legge, non ho capito, non ce la faccio, sono debole, alla legge questo non interessa, infatti, come dice il celebre adagio, «l’ignoranza della legge non è una scusante», figuriamoci la fragilità umana.
Cristo, per fortuna è diverso, è una persona, ha occhi e bocca, cammina con passi umani; può incoraggiare e sostenere, anche rimproverare e ammonire, ma come l’amico, il compagno, la guida. Non ha bisogno di condannare (cf. Gv 12,47) perché il mondo è pieno di gente che condanna, a volte perfino sé stessa. E’ per questo che Paolo nella seconda lettura (Fil 3,8-14), con uno dei suoi tipici guizzi, parla di buttare a mare la giustizia derivante dalla legge per trovarsi in quella di Cristo, che è dedizione, comunione, sequela del suo cammino, esperienza di un amore che salva. E’ questa la cosa nuova che germoglia, come dice la prima lettura (Is 43,16-21), che ci riporta quasi in un clima di avvento, con Dio che apre una strada per incontrare il suo popolo.
Una domanda finale, forse provocatoria ma credo necessaria: tutta la richiesta odierna a spron battuto della certezza della pena, a volte pura e semplice vendetta sociale, non si sente un tantino destabilizzata da questa visione che la Parola di Dio ci propone?
*Cappellano del carcere di Prato