Il figlio perduto e il padre misericordioso
La liturgia di questa domenica ci presenta la parabola del figlio perduto (Lc 15,1-32), un brano che davvero racchiude in sé un’immensa ricchezza di stimoli, un’impressionante attualità messa in luce da moltissimi commentatori, perciò è davvero difficile commentarlo in poche righe. Potremmo, accostandolo alla prima lettura (Gs 5,9-12), soffermarsi su qualche consonanza degna di nota. A prima vista non sembra ve ne siano, si tratta della narrazione dell’arrivo del popolo, finalmente, nella terra promessa. Sì, è un rientro a casa dopo molti anni di lontananza in schiavitù, ma tutto il dramma del rapporto con il padre e il fratello che troviamo nel Vangelo qui non c’è. Tutto sembra liscio ma forse non è così: l’invito di Dio a gioire per il compimento della liberazione, l’allontanamento dell’infamia, si unisce al ritorno a una vita normale, al mangiare i frutti della terra, la cessazione del prodigio del pane del cielo… non c’è un velo di tristezza in tutto questo? Un’epopea gloriosa e drammatica si chiude, si ricomincia a zappare la terra, certo non più una terra di schiavitù, ma sarà capace il popolo di vivere questa libertà o, dopo aver rimpianto le cipolle di Egitto (cf. Nm 11,5), adesso rimpiangerà la manna, che pure a volte aveva disprezzato (cf. Nm 21,5)?
Nella disputa sul pane di vita la folla dirà a Cristo: «Quale opera compi? I nostri padri hanno mangiato la manna nel deserto…» (Gv 6,31), il ricordo di quel tempo come un momento epico, insuperabile, forse dimostra che la mentalità è ancora quella che ritroviamo nella tristezza del fratello maggiore. «Non capisci che tutto quel che è mio è tuo?», dirà a lui il padre, ovvero perché non sei capace di vedere quello che sei, quello che hai, come dono, perché non vedi la tua signoria e stai a contendere con tuo fratello per pochi spiccioli? E sai qual è la riprova che tu non apprezzi questo dono? Il fatto che non ami la vita dell’altro, che sei disposto a sacrificarla in nome di principi, valori che ritieni non negoziabili, la difesa della cultura, della razza, della religione, dell’economia e tutto il pacciame prodotto dalla schiavitù delle tue paure.
Forse qualcuno ricorderà un personaggio del film «Blade Runner», l’androide replicante che dopo aver gonfiato come una cornamusa a suon di pugni il protagonista, lo salva all’ultimo momento dal precipitare da un palazzo perché sente che la sua vita sta finendo, è solo un robot sofisticato con una durata limitata, e forse in un ultimo slancio per la vita che aveva imparato ad apprezzare non vuole che venga perduta dal nemico che gli dava la caccia; e proprio lui, dipinto all’inizio come una macchina assassina, sarà per questo uno dei personaggi più umani. Anche la parabola si conclude mettendo in luce ciò che conta: che il fratello dato per morto sia tornato in vita, un miracolo inaspettato, sembra quasi di vedere il padre – Dio che sorride di questa ovvietà. Ma non sappiamo se questo sorriso abbia trovato accoglienza da parte dell’altro, se l’ottusità di fronte a una realtà evidente abbia prevalso. Il Vangelo non è un romanzo a lieto fine, i giochi sono aperti fino all’ultimo. Per cui non è inutile richiamare alcune righe di un brano abbastanza noto, di Nazim Hikmet: «Ama le nuvole, le macchine, i libri, ma prima di tutto ama l’uomo. Senti la tristezza del ramo che secca, dell’astro che si spegne, dell’animale ferito che rantola, ma prima di tutto senti la tristezza e il dolore dell’uomo».
*Cappellano del carcere di Prato