La linearità del Vangelo, i nostri pensieri contorti
Leggendo il Vangelo può capitarci di notare come gli insegnamenti di Gesù, le sue parole, presuppongano una condivisione di significati comune a tutti gli uditori, un senso di fondo, una base univoca dalla quale partire per un ragionamento, un confronto, l’approfondimento di un contenuto particolare.
È quella che potremmo definire una sorta di saggezza popolare, più o meno da tutti condivisa. Nel Vangelo di questa domenica (Lc 6,39-45): «Può forse un cieco guidare un altro cieco?» oppure «la bocca esprime ciò che dal cuore sovrabbonda», sono detti, appunto, dal sapore proverbiale, che raccolgono la sedimentazione di un sentire comune, accettato come dato di fatto, sul quale non ci piove.
Anche nella prima lettura (Sir 27,4-7) viene affermato che «la parola rivela i pensieri del cuore». Ed è pur vero che anche nel Vangelo, a detta di Gesù, vi sono dei ciechi che stanno cercando di guidare altri ciechi (cf. Mt 15,14), quei farisei che si stanno opponendo con tutte le forze all’ annuncio di Cristo, ma non sembra che venga messo in questione il punto di fondo; magari, come anche altrove, essi pensavano di vederci bene, nonostante Cristo sia di un altro parere («proprio perché dite noi vediamo, il vostro peccato rimane» – Gv 9,41).
Credo che nel nostro tempo il problema si sia spostato da questa linearità verso forme più complesse e, a volte, contorte. Infatti non sempre la parola esprime i pensieri del cuore, ma li può addirittura creare. Le narrazioni vengono prodotte e si sostituiscono le une alle altre a velocità impressionante, al punto che non importa più quello che sta dietro, il raggiungimento di una verità sembra ormai impossibile, e non solo una verità universale e assoluta ma anche le piccole verità della vita scompaiono dietro la rissa delle lingue: ti voglio bene davvero? Sei davvero importante per me? E’ questo quello in cui credo? Diventa ininfluente anche il fatto che io abbia o meno una trave nell’occhio, sono lo stesso abilitato a togliere la pagliuzza nell’occhio dell’altro, o a crearla, se essa non c’è, perché il riferimento è solo quello che mi sembra utile in questo istante.
Basta guardarsi attorno per vedere come la manipolazione di notizie, interpretazioni, dati, generi un rumore di fondo tale da rendere tutto indistinto nel grigiore. Ha perciò un bel dire il Vangelo sul fatto che ogni albero buono produce frutti buoni: oggi i frutti buoni sono quelli che provengono dall’albero che è etichettato come tale, ma che può non dire un bel niente sulla sua autenticità. Le manipolazioni non sono solo quelle applicate alla genetica, o ai processi industriali: si possono manipolare idee, concetti, significati e sdoganare di tutto, razzismi, sessismi, disuguaglianze, diritti conculcati. Basta chiamare il povero, disadattato, furbetto; lo straniero, invasore, non integrato; le leggi liberticide, «patriot acts»; i campi di prigionia, centri di smistamento e così via. Ma vuoi che la sicurezza, la protezione dei cittadini, la salvaguardia della propria cultura non produca frutti buoni? Invece non sempre è così.
C’è però una buona notizia: nonostante tutto, il Vangelo non si lascia mettere in crisi dalle nostre distorsioni; Dio è il buon agricoltore, capace di innestare vita nuova e far portare frutto all’olivo inselvatichito (cf. Rm 11,17), e Cristo stesso è la vite (cf. Gv 15,1), grazie alla quale possiamo portare frutti. Uno sguardo disincantato sul nostro mondo non deve farci perdere la confidenza in lui, «sapendo che la nostra fatica non è vana» (2Cor 15,54-58).
*Cappellano del carcere di Prato