L’altra faccia delle beatitudini
Nella prima lettura (Ger 17,5-8 ) e nel salmo responsoriale (Sal 1) di questa domenica ricorre un’immagine molto simile, al punto che questi due brani sembrano l’uno la parafrasi dell’altro, ovvero quella del credente assimilato all’albero piantato lungo corsi d’acqua.
Senza dubbio l’immagine è fortemente simbolica e evocativa, anche il profeta Ezechiele la utilizza nella celebre visione del nuovo tempio, dove, appunto, alberi fruttiferi e salutari crescono lungo il fiume che sgorga dall’altare (cf. Ez 37,12).
Chi ha qualche anno potrà ricordare uno dei canti più gettonati nelle liturgie dei gruppi giovanili e cori parrocchiali di un po’ di tempo fa: «come alberi piantati lungo il fiume noi aspettiamo la nostra primavera…», un canto solare e luminoso nella sua promessa di speranza di ragazzi che si affacciavano alla vita o di credenti affascinati dalle prospettive di un tempo post conciliare ricco di aspettative e impegni. In realtà i due brani citati hanno una doppia faccia, secondo uno schema di benedizione-maledizione: saranno come alberi lungo corsi d’acqua se… altrimenti saranno come arbusti nella steppa. Il punto nodale è l’adesione al Signore, ovviamente, non semplicemente un generico ottimismo. A volte questo «rovescio della medaglia» può suonarci un po’ disagevole, ma anche nel Vangelo di Luca (l’evangelista della misericordia, lo «scriba della mansuetudine di Cristo», come lo definisce Dante) alle beatitudini corrispondono i guai: beati i poveri, guai ai ricchi, beati gli affamati, guai ai sazi…
La cosa può infastidirci anche confrontandole con la versione di Matteo, dove tutto è più spiritualizzato, con un tono forse più elevato ma anche meno diretto. Dietro a tutto questo si potrebbe nascondere l’equivoco di cui sopra riguardo al canto ispirato al salmo: siamo come alberi perché siamo giovani e il mondo ci sorride o perché è il Signore la nostra forza? Le beatitudini di Matteo potrebbero dare l’idea di un aggiustamento per un mondo che più o meno va bene così, dove è possibile che anche situazioni di difficoltà e sofferenza possano essere superate vivendo in un certo modo, appunto la povertà in spirito, la purezza di cuore, la mitezza… nulla è detto sull’ambiente, su quello che sta intorno, sugli altri che non sono in questa situazione, ma forse non estranei a ciò.
Luca lo dice chiaramente: il mondo nuovo postula l’uscita di scena di quello vecchio. L’evento più forte di questo ribaltamento di prospettive è proprio la resurrezione di Cristo, cardine della fede cristiana. Ma anche questo non è così agevole da accogliere se Paolo richiama questa centralità, che richiede un riassetto di tutti i nostri quadri, non è un semplice «happy end» (1Cor 15,12-20; 2ª lettura). E’ un po’ come quando si continua a parlare dei paesi in via di sviluppo, che dovrebbero, in teoria, fare passi avanti per portarsi al livello degli altri, che nel frattempo vanno per la loro strada. Oggi ci accorgiamo che non è così, che se qualcuno vuole o deve, per evitare di soccombere, aumentare la propria fetta di torta bisogna che qualcun altro riduca la sua, altrimenti il conto non torna. Questo oggi non piace molto ed ecco perché gli affamati che cercano di riempirsi la pancia sono improvvisamente diventati antipatici. Ecco perché si continua a ripetere che il nostro paese non è affatto quel Bengodi di cui si favoleggia. Peccato che per chi deve vivere con meno di due dollari al giorno (come molti al mondo) anche la mensa dei poveri è come un ristorante di lusso.
*Cappellano del carcere di Prato