Un significato nuovo per il «lieto annunzio»

Una delle affermazioni più note del Concilio Vaticano II, che è diventata quasi un mantra nella riflessione successiva, è quella secondo la quale Dio si rivela attraverso «eventi e parole intimamente connessi» (DV2), sottolineando come la storia sia il letto nel quale scorre il fiume della rivelazione e la parola, appunto, capace di offrire una luce per coglierla, per decodificare tutto l’insieme di una realtà a prima vista caotica, ma che invece rivela l’opera di Dio che vuole comunicare se stesso e chiamare gli uomini alla comunione con lui. Ecco, questo collegamento fra eventi e parola è uno dei temi che possiamo ritrovare nella liturgia di questa terza domenica. Il racconto della celebrazione che troviamo nella prima lettura (Ne 8,2-10) offre quasi una guida per ogni santa convocazione: vi è il popolo radunato, l’ascolto della parola, l’invito alla gioia e al rendimento di grazie di sapore quasi eucaristico, i cibi e il buon vino da condividere con gli altri. Non si tratta, però, di un rito elaborato a tavolino: la materia prima di questa convocazione è la lode per l’opera di Dio, la liberazione e il ritorno dall’esilio, un ritorno non certo glorioso, anzi tutti sono abbastanza scalcinati, vi è il sapore della provvisorietà in quella «tribuna di legno costruita per l’occorrenza» (v. 4). Eppure c’è tutto, perché c’è un popolo che ha sperimentato una salvezza inaspettata, che dovrà forse leccarsi ancora molte ferite, eppure è lì, può ascoltare ancora la parola, può ritrovarsi ancora sotto il cielo di Dio. E’ un popolo che deve ripartire, ritrovare nel Signore la forza che lo sostiene ed è la parola che può aprire ad una nuova comprensione della situazione in cui si trova e il cammino fatto, gli ostacoli incontrati e superati per essere qui, oggi.

Anche l’inizio del vangelo di Luca (Lc 1,1-4), con la sottolineatura della ricerca fatta sugli avvenimenti accaduti per rendere ragione della solidità degli insegnamenti ricevuti dal credente sarebbe un semplice esercizio di metodo, pur lodevole e importante, senza una parola, anzi una presenza, che aprisse un senso ulteriore. Il compimento di cui parla Gesù Cristo nella sinagoga (Lc 4,14-21), di per sé, non è neppure la realizzazione di una promessa, il testo di Isaia era già compiuto nel momento in cui il profeta l’ha proclamato, è lui che si sente consacrato e inviato portare il lieto annunzio, eppure è Cristo che apre a un nuovo significato questo annunzio: solo lui può trasformare l’anno dell’ira, annunciato dal profeta, nell’anno della grazia inaugurato con il suo ingresso nel mondo.

Del resto anche il brano di Paolo nella seconda lettura (1Cor 12,12-30) ci apre a un senso ulteriore. L’esempio del corpo e delle membra non è una sua invenzione letteraria, forse ricorderemo l’apologo di Menenio Agrippa che studiavamo alle elementari. Eppure qui si tratta di un messaggio assai diverso, al di là della somiglianza dell’immagine: se lì il messaggio era quello di rassegnarsi ad occupare il posto assegnato dalla sorte per l’utilità comune, sacralizzando in qualche modo una struttura umana, qui si ha la relativizzazione di tutto ciò. Certo non tutti sono profeti o maestri, come avviene in qualsiasi corpo sociale, ma è centrale la partecipazione alle gioie e ai dolori non del corpo nella sua interezza, ma delle singole membra, proprio (a detta di Paolo) delle membra meno onorevoli e decorose, che necessitano di maggior cura. Questo differenzia Cristo da Zeus, dall’imperatore, dai dittatori di ogni tempo, questo senso nuovo che egli porta nel mondo, ed è affidato a noi come dono.

*Cappellano del carcere di Prato