Le nozze di Cana, un’altra epifania
La liturgia di questa seconda domenica del tempo ordinario, in questo anno liturgico, si pone in continuità con la festa del battesimo del Signore appena celebrata e ci permette di ritrovare l’unitarietà dei tre momenti che anticamente erano celebrati nella festa dell’Epifania e della quale si trova ancora oggi traccia nell’antifona al Magnificat dei Vespri, dove si ricorda che «tre prodigi celebriamo in questo giorno santo: oggi la stella ha guidato i Magi al presepio, oggi l’acqua è cambiata in vino alle nozze, oggi Cristo è battezzato da Giovanni nel Giordano».
Anche oggi, quindi, come nelle domeniche precedenti, viene celebrata un manifestazione di Cristo, come sottolinea chiaramente l’evangelista alla fine del brano (Gv 2,1-11), ma con alcune particolarità, rispetto alle altre. È vero che anche al momento dell’arrivo dei Magi e del Battesimo non si assiste ad una manifestazione strombazzata, ma sempre avvolta da un velo di mistero: gli inaspettati visitatori con i loro doni così allusivi, così come nel Battesimo il Cristo è indistinto nella folla al punto che Giovanni pone qualche obiezione (cf. Mt 3,14), ma qui, per certi versi, ancora di più. Se è vero che la manifestazione di Cristo è assai netta perché produce un fatto nuovo, il buon vino che tutti possono gustare, è vero che solo pochi ne conoscono davvero l’origine, i servi che a loro volta, dietro la spinta di Maria, hanno fatto quello che lui ha detto loro.
Ecco, ancora una volta, quell’intreccio fra luce e ombra, fra parola e silenzio, fra comprensione e incomprensione, che sarà caratteristica del vangelo di Cristo, tipico delle parabole, dove all’immediatezza del linguaggio, alla portata di tutti, non corrisponde sempre una vera comprensione; dove sembra (anzi il Vangelo lo afferma direttamente) che Cristo faccia apposta a non farsi capire (cf. Mc 4,11-12). Il fatto è che la manifestazione di Cristo come Signore o Messia, non può essere trattata come un assioma teologico o intellettuale, teso a dimostrare una verità, a provocare un convincimento, come un sillogismo filosofico o una dimostrazione matematica.
Essa nasce all’interno di un contesto, che non è neppure la buona disposizione, la fede, o la volontà dell’uomo, altrimenti sarebbe una sorta di prodotto proprio. Credo che sia l’esperienza della propria povertà, quell’habitat nel quale la manifestazione di Cristo come Signore e Messia, parola nuova, vino nuovo per la nostra tristezza, possa rivelarsi. E’ l’ambito dell’invocazione, propria o fatta da un intercessore, come nel caso della madre: «non hanno più vino. Non hanno più vita. Non hanno più speranza». Anche qui la manifestazione di Cristo non si esaurisce nel rifornire le scorte, nel riempire i vuoti che si producono nelle nostre storie. Lui stesso finirà per svuotare se stesso (cf. Fil 2,7) nella sua ora che non è questa, ma che in qualche modo viene anticipata, e non si limiterà a risolvere un problema, a far tirare un sospiro di sollievo a chi è in difficoltà. Lì darà il suo sangue che, non a caso, sarà associato all’acqua, sgorgante dal suo costato (cf. Gv 19,34), acqua che possiederà una forza nuova. Non sarà, come oggi, segno di tristezza, di inadeguatezza, di limite, ma di vita, di nuova possibilità, di quello Spirito che, nella comunità, si esprimerà con doni e carismi (1Cor 12,4-11; 2a lettura), rendendo ogni credente collaboratore, testimone, amico del’unico Sposo.
*Cappellano del carcere di Prato