La traduzione viva del mistero del Natale
Accostandosi alle letture di questa domenica, Battesimo del Signore, credo che non solo a me faccia l’effetto di essere riportati al tempo di Avvento, al massimo alla notte di Natale: la seconda lettura, infatti (Tt 2,1-14), è la stessa della Messa nella notte del Natale (con alcuni versetti aggiuntivi, però – Tt 3,4-7- che le danno un tono diverso), mentre la prima (Is 40,1-5.9-11) riecheggia gli annunci profetici tipici dell’Avvento (la si ritrova nella 2a domenica del ciclo B), infine nel Vangelo (Lc 3,15-16.21-22) il Battista ritorna in scena con il suo annuncio dell’imminente venuta del Messia, come abbiamo ascoltato qualche settimana fa.
La sensazione può quindi essere quella di essere riportati indietro nel tempo, con la parentesi delle festività natalizie ormai chiusa, così come si smontano gli addobbi e si ripongono in soffitta. In realtà la vicenda del Battesimo di Cristo, che lo costituisce e invia come Servo del Signore al suo popolo, per il compimento del disegno che Dio gli affidato, non è altro che la traduzione esplicita e vissuta del mistero del Natale. La manifestazione del mistero di salvezza, la sollecitudine di Dio per ogni uomo, simboleggiata dalla stella e dall’arrivo dei Magi, diventa realmente operativa e comprensibile nell’annuncio e nell’insegnamento, nelle guarigioni e liberazioni, nel perdono e nella misericordia donate da Cristo nel suo cammino. E poi ancora di più, in maniera irrevocabile e definitiva, nel pane spezzato e nel corpo donato sulla croce. È nella logica del seme gettato, che colui che è sbocciato dal grembo della vergine porti frutto nella sua vita, prima con molti anni di nascondimento e poi venendo alla luce come Unto del Signore risalendo dalle acque del Giordano. Anche lui, pur essendo il Messia, non si è sottratto a questa legge della lenta maturazione della propria vita e vocazione, quella che alle volte possiamo sentire stretta per noi stessi, ma che, con tutta evidenza, è la medesima scelta da Cristo. Ecco, quindi, che questa strana compresenza di realtà definitive che convivono con altre provvisorie e che la liturgia continuamente ci ripropone nei suoi cicli, non è altra che la trama stessa della vita.
Perché ogni anno ricominciare con l’Avvento, la Quaresima e la Pasqua, quando è evidente che tutti conosciamo i fatti, la storia e come va a finire? Come mai non possiamo archiviare una volta per tutte l’attesa tipica dell’Avvento, l’impegno ascetico della Quaresima e la gioia pasquale per la vittoria definitiva, e ci troviamo ogni volta a vivere realtà e sentimenti contrastanti? Probabilmente perché la vita stessa è fatta di riprese continue di realtà sempre bisognose di accoglimento,ma che ci spingono in avanti, l’apparizione della grazia di Dio convive con momenti in cui essa ci sembra perduta, la gioia pasquale deve fare i conti con la permanenza del dolore e della morte, salvo trovare la forza inaspettata della luce che viene dall’alto e ci porta a guardare ancora a colui che è una parola nuova, l’amato che ci rivela Dio come Padre e noi stessi oggetto di questo amore. Negli ultimi versetti della seconda lettura (Tt 3,4-7), la manifestazione di Cristo nel suo Battesimo diventa manifestazione della sua salvezza nel nostro battesimo, rivelazione di lui come uomo nuovo e della nostra realtà più profonda, quella «piena rivelazione dell’uomo a se stesso» di cui parla Gaudium et Spes 22, che può dare fondamento alla nostra speranza e alla nostra adesione a lui.
*Cappellano del carcere di Prato