Impariamo ad essere uomini dell’Avvento

Si apre questa domenica un nuovo anno liturgico con il primo dei «tempi forti», l’Avvento, con il brano evangelico (Lc 21,25-28.34-36) che riprende quasi alla lettera, stavolta nella versione di Luca, quello ascoltato due settimane fa.

Il riferimento alla venuta di Cristo sulle nubi e gli sconvolgimenti cosmici che ne annunziano la venuta è lo stesso, vi sarebbe anche la narrazione della parabola del fico, ma il lezionario ha saltato questi versetti, riportando invece i successivi, tipici di Luca, l’invito a non perdersi nella dissolutezza, vegliando e pregando, per avere «la forza di sfuggire a ciò che deve accadere» (v.36). Ecco, forse vale la pena di soffermarsi su quest’ultima frase, per domandarsi se e in qual modo si possa sfuggire ad accadimenti di così vasta portata: è davvero possibile, con tutta l’attenzione che uno può metterci, sfuggire alla caduta degli astri del cielo, o a movimenti tellurici devastanti, a un collasso totale del secolo presente? Non sembra autenticamente pensabile. Allora quale il senso di questo «sfuggire»?

Un altro dato interessante è l’invito ad alzare il capo per l’avvicinarsi della liberazione (cf. v.28). Anche questo dà una colorazione particolare all’annuncio, il fatto che per qualcuno questo sconvolgimento sia auspicabile, oggetto di attesa, cosa che può far nascere una perplessità: come fare ad augurarsi una cosa del genere, a meno di non possedere una mentalità criminale o terrorista? Certo, se sono prigioniero in un carcere posso augurarmi il crollo delle mura per poter uscire alla libertà, così pure se sono accampato sotto uno dei tanti muri innalzati sui confini degli stati, posso desiderarne la caduta, se non ho più nulla da perdere posso gioire perché un sistema iniquo inizia a scricchiolare e a creparsi. Non sarà così, invece, se sono comodamente insediato all’interno, se siedo nei consigli di amministrazione di potenti compagnie, se mi sono installato in un mondo accuratamente incentrato su me stesso. In ogni caso, al di là dei sentimenti prevalenti, positivi o negativi, che possono accompagnare la lettura di eventi epocali definibili anche come segni dei tempi, non esiste una strategia per non esserne toccati, la strategia letteraria del «gattopardo» che cerca di cambiare tutto affinché non cambi niente, o quella utilizzata dai farisei per «sfuggire all’ira presente» che vengono aspramente rimproverati dal Battista (cf. Mt 3,7).

Il fatto è che a un certo punto occorre «uscire da Babilonia» come dice il profeta (cf. Ger 50,8) e anche l’Apocalisse (cf. Ap 18,4) per non associarsi ai suoi peccati. Ma, ben sapendo che il peccato siede alla porta di ciascuno di noi (cf. Gn 4,7), non si tratta di una separazione manichea, si tratta di sfuggire a una mentalità, all’assuefazione al pensiero corrente, allo schiacciamento sulle proprie particolarità. Si tratta di attendere una liberazione profonda e autentica per noi e per ogni uomo, reagendo all’ansia, che ci porta a rinchiudersi ancora di più e a contrapporsi agli altri, con la fiducia nel futuro di Dio.

Non si tratta, quindi, di augurarsi la fine delle cose per pessimismo cosmico, si tratta di essere uomini di speranza, uomini dell’Avvento che non si lasciano condizionare dall’ansia e dalla paura, ma che vedono la realtà per quella che è, che attendono la nascita di un germoglio di giustizia (cf. Ger 33,14-16; 1a lettura), che colgono l’insufficienza del presente che, come titolava Arturo Paoli un suo libro, non basta a nessuno.

*Cappellano del carcere di Prato