Cosa ci insegna l’offerta della vedova
Nel meditare sulle letture di questa domenica, che ruotano attorno alle vicende di due povere vedove che donano il poco che hanno, una al tempo di Elia (1Re 17,10-16), l’altra additata da Gesù come esempio (Mc 12,38-44), potremmo confrontarle con una novella di Pirandello che parla di una vicenda simile, mettendo però anche in luce un dramma sottostante. Potrebbe essere infatti limitante o addirittura superficiale, tessere semplicemente la lode di queste persone rendendole come immagini da santino.
Nella novella si racconta di un giovane prete in crisi di fronte a un’anziana donna che, a prezzo di immani sacrifici, raduna del denaro e dei beni in natura da offrire al santo patrono per propiziare il ritorno del figlio lontano. Il prete vorrebbe ribellarsi a questa visione di scambio commerciale, soprattutto perché i soldi e i doni sarebbero stati per lui, come offerta per la Messa. Tenta di far desistere la donna, di offrire gratuitamente la celebrazione, ma essa si oppone decisamente. Alla fine accetterà l’offerta per non mortificare la grande fede di questa donna. Come si vede è una conclusione simile a quella del Vangelo, anche qui la fede di questa donna trasfigura la sua miseria, ma le domande del giovane prete, la sua paura di diventare uno sfruttatore dei bisogni e delle ansie più profonde degli altri, forse andrebbero prese sul serio.
Potremmo domandarci se gli scribi che «divorano le case delle vedove», stigmatizzati da Gesù, esercitino questa attività usuraria a livello personale o se sia la stessa istituzione religiosa nella quale svolgono la loro mansione a reggersi sulla fiducia loro accordata proprio dai più poveri e miseri, prosperando e appropriandosi del frutto del loro sacrificio. D’altra parte Dio non incamera certo le offerte dei poveri, e neppure mangia i cibi offerti in sacrificio (cf. Sal 49,13). Già altrove Gesù Cristo mette in guardia dal caricare pesi sulle spalle degli altri senza toccarli neppure con un dito (cf. Mt 23,4). Non è facile, perciò, sapere perché la donna ha messo i suoi ultimi spiccioli nel tempio (anche Gesù non si sbilancia, dice solo che ha messo tutto ciò che ha): un atto di amore e di confidenza nella provvidenza, un atto dettato dagli ultimi scampoli di speranza, o dall’inizio della disperazione, un atto in risposta agli inviti della catechesi e della predicazione, un atto di conformismo alla dottrina o la voglia di sentirsi pienamente partecipi della vita della comunità anche se con poco… non possiamo davvero saperlo.
Si tratta del mistero del cuore dell’uomo di fronte a quale occorre fermarsi, come sulla soglia di un santuario, con il silenzio e il rispetto dovute a un luogo sacro. E’ molto facile, nella frenesia interventista di oggi, diffondere giudizi e pareri istintivi, postando commenti sui social o intervenendo in rete: per qualcuno la vedova può essere un fulgido esempio, per altri una povera illusa; chi perdona il male ricevuto, un operatore di pace o un mezzo matto; chi testimonia il proprio cammino di fede anche nel dolore o nella malattia, un santo o un millantatore. Viceversa solo la capacità di guardare, ascoltare, lasciandosi interrogare dal mistero che alberga nel cuore umano e che spesso si manifesta inaspettatamente nei poveri e nei ultimi come un vero e proprio «magistero», può dirci qualcosa sul mistero di Dio e della nostra stessa vita, come accade al prete della novella.
*Cappellano del carcere di Prato