La moltiplicazione dei pani e le sue conseguenze
Inizia con questa domenica una specie di ciclo di cinque domeniche che, pur essendo sempre compreso nel tempo ordinario, interrompe la lettura del Vangelo di Marco, tipica di questo anno, per proporci il capitolo 6 del Vangelo di Giovanni, una sorta di «cameo» sul tema del pane di vita.
La motivazione di questo inserimento probabilmente è la preferenza data alla narrazione della moltiplicazione dei pani secondo Giovanni (Gv 6,1-15), anziché quella di Marco, perché si svilupperà in una riflessione molto più ampia, al di là del semplice racconto, per condurre il discepolo alla comprensione più profonda e autentica di questo segno. Ancora una volta se confrontiamo il quarto vangelo con gli altri, notiamo questo aspetto riflessivo, maggiormente studiato rispetto alla narrazione essenziale, quasi in presa diretta, di Marco.
Eppure Giovanni è essenziale proprio per aiutarci a passare dalla considerazione di un fatto alla sua interpretazione, che apre orizzonti inaspettati, come possiamo sperimentare in altri brani, ad esempio nel racconto della Passione dove ci è disvelato che il vero Re è proprio quell’uomo condannato, colpito e ucciso (cf. Gv 18,37). Questo processo di apertura a un nuovo significato non è però sempre facile, come vedremo nelle prossime domeniche, passare dai segni che spingono a un primo avvicinamento a Cristo ad una adesione effettiva non è per nulla scontato. È vero che alla fine del brano la gente proclamerà che «questi è davvero il profeta che deve venire» ma Gesù si ritira in solitudine, quasi per offrire una pausa di riflessione non tanto per se stesso, ma per loro, come dire, sì la risposta sarebbe giusta ma ne siete davvero sicuri? Siete disposti a trarre tutte le conseguenze di questa affermazione?
La disputa su Cristo pane di vita che si avvierà nei versetti successivi e per tutto il capitolo manifesta chiaramente la fragilità di quella professione di fede. Questa stessa difficoltà verrà espressa anche da Marco che narrerà una seconda moltiplicazione nonostante la quale la fede dei discepoli manterrà una fondamentale incapacità di aprirsi davvero a un rapporto saldo e definitivo con Cristo, narrazione che non è compresa nel lezionario festivo per i motivi sopra ricordati ma che può esserci utile per un confronto (cf Mc 8,1-21).
Vi è quindi un rapporto disarmonico fra l’affermazione di un dato di fede, di per sé oggettivamente vero: Cristo è l’inviato nel mondo, il Re Messia, e le conseguenze per la vita personale: «voi mi cercate non perché avete visto dei segni, ma perché avete mangiato di quei pani e vi siete saziati» (Gv 6,26). In Marco la cosa sarà ancora più esplicita: se di fronte alla guarigione del sordo la folla esclama «ha fatto bene ogni cosa; fa udire i sordi e fa parlare i muti» (Mc 7,37), dopo la moltiplicazione dei pani Cristo dirà ai discepoli «avete occhi e non vedete, avete orecchi e non udite?» (Mc 8,18).
Allora anche l’affermazione di Paolo che troviamo nella seconda lettura (Ef 4,1-6), una sintesi lapidaria da scolpire nel proprio animo: «un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo…» richiede un’assimilazione che vada oltre il dato dottrinale. Cosa significa per la nostra vita un Dio che ci chiede di spezzare il pane che abbiamo con i fratelli? Che «opera per mezzo di tutti ed è presente in tutti» (Ef 4,6)? Possiamo davvero isolare il Dio che compie prodigi da colui che offre se stesso e chiede di amare come lui ha amato noi?
*Cappellano del carcere di Prato