Profeti destinati a non essere accolti
La liturgia della parola di questa domenica ci propone una riflessione su un aspetto alquanto singolare nel panorama biblico che è diventato anche un proverbio di uso comune, ovvero il fatto che nessuno è profeta in patria, o come dice il vangelo di oggi (Mc 6,1-6) «un profeta non è disprezzato se non nella sua patria, fra i suoi parenti e in casa sua», un’affermazione ancor più pesante a causa dell’aggravante del disprezzo che si insinua fino nelle relazioni primarie, in casa propria.
Questo potrebbe essere frutto della constatazione che tutti i profeti non hanno avuto vita facile, basterebbe pensare a Geremia (cf. Ger 20,1-3), ad Amos (cf. Am 7,12), allo stesso Ezechiele nella prima lettura di oggi (Ez 2,2-5), oltre alla descrizione riportata in Ebrei 11,32-38, che elenca in una lunga lista tutte le traversie degli inviati di Dio. La domanda di fondo è perché sia, o meglio debba, essere così. Questa opposizione potrebbe essere ascritta al comportamento di coloro che sono chiusi a Dio, alla sua parola, ovvero gli infedeli, i miscredenti… in realtà si può notare che questa reazione nasce dall’interno del popolo di Dio: Egli manda i profeti (e lo stesso suo Verbo) ai suoi, ma i suoi non lo accolgono (cf. Gv 1,11), atteggiamento quasi strutturale nell’intero messaggio biblico.
Non essendo uno storico delle religioni non so se ve ne sia qualcuna che preveda un tale esito al suo interno; penso siano previsti ammonimenti o maledizioni per chi non accoglie il messaggio, esortazioni al combattimento da parte dei pochi o tanti rimasti fedeli.
Nella Bibbia non è così, il popolo di dura cervice è quello stesso a cui il profeta è inviato e che è già in relazione con il Dio dell’Alleanza, per quanto in crisi possa essere quest’ultima. Questo è un messaggio gravido di conseguenze, di una novità inaudita: innanzitutto perché fa piazza pulita di facili classificazioni fra chi è dentro e chi è fuori, chi è giusto e chi è peccatore, e se è pur evidente che vi sia una tale differenza, la linea di confine non si coglie a occhio nudo. Poi che è Dio stesso che mette in crisi il suo proprio progetto (o meglio, le codificazioni di questo progetto che gli uomini si danno mediante le loro strutture) proprio perché non può accettare che esso venga reso un puro impianto culturale senza una relazione viva e coinvolgente con lui, anche a costo di scontri e tensioni: «venite e discutiamo, dice il Signore» (Is 1,18).
Non per nulla Cristo stesso passerà da sovversivo agli occhi delle autorità religiose proprio perché richiama tutto questo, la fallacia di una confidenza magica nel tempio (cf. Mc 13,2), l’impostazione autoreferenziale del culto (cf. Mt 5,23), l’ipocrisia di atteggiamenti svuotati di significato (cf. Mt 6,5). I profeti non compiono semplicemente un’opera di restauro, la correzione di una devianza, perché spesso i più strenui oppositori ad essi sono proprio i custodi della tradizione, per cui il richiamo al ritorno ad una relazione viva e coinvolgente è percepito come una novità inaccettabile. Ed è forse per questo che, quando Gesù parla, al contrario, dei potenti di questo mondo, nota che si fanno chiamare benefattori (cf. Lc 22,25) e probabilmente possono essere perfino percepiti come tali, ben rivestiti nei loro privilegi che sembrano assumere controvoglia, di fronte a masse spesso plaudenti, soddisfatte nelle proprie illusioni .
I profeti che Dio manda nella Chiesa e nel mondo sono spesso disarmati e sognatori, a volte spigolosi e scorretti, ma sono come una brezza fresca nella cappa oppressiva del secolo presente.
*Cappellano del carcere di Prato