La forza di Gesù che placa la tempesta
Leggendo, personalmente o in modo comunitario, l’uno o l’altro brano evangelico può accadere di essere colpiti da qualche aspetto secondario del racconto, qualcosa che potrebbe non avere alcuna importanza eppure si radica così profondamente nella riflessione da non permettere di andare oltre senza prenderlo in considerazione. Ritengo che rivesta un tale ruolo, nel brano di questa domenica (Mc 4,35-41), la notazione dell’evangelista che i discepoli prendono sulla barca Gesù «così com’era». Non so se qualcuno abbia sviluppato una qualche considerazione su ciò oppure se, semplicemente, si tratti di una banale nota di passaggio. Siccome però, solitamente, i vangeli sono abbastanza stringati e con un uso di termini parsimonioso e motivato, il problema potrebbe porsi. Questa affermazione rimanda a Gesù come una realtà definita, con un’identità ben precisa. Egli non riveste un ruolo e non è «scomponibile» a seconda delle necessità. Abbiamo già visto in precedenza come la sua azione porti a reazioni contrastanti, acclamato dalle folle ma tacciato di connivenza con il maligno dagli scribi. Cristo in questo senso non fa sconti e si presenta per quello che è; egli dirà ai suoi «volete andarvene anche voi?» (Gv 6,67) senza calibrare se stesso sulle loro aspettative.
Vedremo prossimamente come, pur sapendo che nessun profeta è bene accetto in patria (cf. Mc 6,4), non farà nulla per indorare la pillola. Con la stessa determinatezza parla di Giovanni, il testimone che «se lo accettate, è lui l’Elia che deve venire…» (Mt 11,14) anche se tacciato di stranezza e di possessione diabolica come Cristo stesso. Forse in questo prendere Gesù «così com’era» è adombrata la disponibilità dei discepoli a porsi in quest’ottica, anche se, come vedremo, con diverse incertezze e idee non molto chiare che si rivelano nella vicenda della tempesta sedata.
La domanda finale «chi è costui?» è ricorrente nei vangeli, specialmente in Marco, ma se l’azione di comandare al vento è tipica della divinità la risposta, in teoria, dovrebbe essere scontata. Del resto se i discepoli non hanno alcuna idea di chi sia veramente Gesù Cristo perché svegliarlo, chiedendo in qualche modo un intervento? La realtà è che l’esperienza di affidamento a Dio, che in Cristo trova il suo culmine, è tutt’altro che lineare. A volte la fede procede in modo «ondulatorio» con picchi e ritorni, attese e speranze assieme a timori e paure. E anche la pace riportata dal gesto regale di Cristo, che attualizza il salmo dove il Dio del tuono e della tempesta finisce per benedire il suo popolo con la pace (cf. Sal 28,1-11), non riesce a dissipare del tutto la ritrosia dei discepoli.
Certo la tempesta fa paura, ma anche colui che domina la tempesta con la sua forza, il «più forte» (Lc 11,22) che vince le forze caotiche può impaurirmi perché mi relega in una situazione di impotenza pressoché totale. Si tratta di una forza creatrice e benefica ma dalla quale l’uomo non può che restare a distanza perché comunque «Dio è un fuoco divorante»(Eb 12,29). E allora si capisce perché alla domanda su chi sia davvero quest’uomo, risponde solo il centurione sotto la croce, dove «l’amor che move il sole e l’altre stelle» perde per sempre il suo aspetto inquietante per manifestarsi nella debolezza di un volto di uomo che ha raggiunto l’abbassamento più infimo (cf. Mc 15,33-39). Anche lì il sole si oscura ma dopo le tre del pomeriggio inizia un nuovo giorno, il sabato senza fine, una pace universale e definitiva.
*Cappellano del carcere di Prato