La Trinità, un mistero trattato con naturalezza
La liturgia di questa domenica riprende temi appena incontrati nelle solennità dell’Ascensione e di Pentecoste, nel brano evangelico (Mt 28,16-20) siamo nuovamente riportati sul monte, seppur situato da Matteo in Galilea, in un luogo che evoca lo scenario della dipartita di Gesù con l’invio in missione dei discepoli. La festa di questa domenica è perciò saldamente inserita nel contesto pasquale (anche se ufficialmente concluso, ma a volte la liturgia ha queste appendici che raccordano i tempi forti con quello ordinario); un contesto che ci consente di cogliere la rivelazione del mistero trinitario come manifestazione di una volontà di salvezza, di quelle «viscere di misericordia» che ci parlano non solo dell’opera compiuta da Dio a beneficio dell’uomo (cf. Sal 106,15), ma della sua propria identità.
Il mistero della trinità, quello che solitamente viene ritenuto uno degli argomenti più ostici nella riflessione teologica o catechetica, sorge con estrema naturalezza e viene proposto da Cristo come sorgente dell’annuncio e della vita di fede al momento dell’invio in missione: «andate… battezzate nel nome del Padre e Figlio e dello Spirito Santo», senza che abbia fatto alcun corso ai discepoli, né prodotto alcun testo esplicativo. Egli parla svariate volte del Padre ma una buona metà delle volte, specialmente nella prima parte del vangelo di Matteo, parla del «Padre vostro», riferito ai discepoli, dando quasi per scontato che si sappia di chi sta parlando: chi è che non conosce il proprio padre? Vi sono meno riferimenti allo Spirito, eppure non si tratta di uno sconosciuto se Cristo mette in guardia contro la bestemmia dello Spirito, unico vero e grave peccato, stravolgimento radicale di un’armonia che sta alla base di una fede autentica. Certamente il Cristo si presenta come figlio, vive da figlio, è quindi questa realtà vissuta e l’esperienza condivisa con i suoi che può far nascere in modo spontaneo e naturale la coscienza di essere già dentro una rete di relazioni che si manifesta con la vicinanza inaudita realizzata a partire dal suo ingresso nel mondo.
Questa realtà inaudita (nel senso letterale di «mai udita») la si ritrova nella prima lettura (Dt 4,32-40) che formula essa stessa questa domanda: si è mai udita una tal cosa? Che Dio parli, che Dio si scelga un popolo come partner di un dialogo e di una intera storia? E’ una domanda retorica, evidentemente, fatta a un popolo che ha già fatto l’esperienza dell’ascolto, del dono della legge, degli eventi dell’esodo… non importa neppure che risponda, il fatto di esserci, di vivere è la testimonianza che questa realtà non è più inaudita ma si è compiuta. Ecco che questo, quindi, è un brano «trinitario» pur senza menzionare questo dato teologico, dal momento in cui Dio interviene nella storia aprendo una strada nel deserto al suo popolo, si sono aperte anche le sue braccia per accogliere nel mistero della sua vita tutte le sue creature, per cui quando Cristo parlerà del Padre e dello Spirito darà un nome a un’esperienza ben conosciuta da chi si è aperto a questa realtà non più inaudita bensì da molto tempo udita: «non è linguaggio e non sono parole, di cui non si oda il suono. Per tutta la terra si diffonde la loro voce» (Sal 18,4), una voce che risuona nel nostro intimo e ci attesta che siamo figli ed eredi (cf. Rm 8, 14-17; 2° lettura) e vibra in consonanza con le nostre più intime attese.
*Cappellano del carcere di Prato