Lo Spirito non si lascia ingabbiare
Negli ultimi anni, a livello ecclesiale e liturgico, si è cercato di sottolineare maggiormente la centralità dell’azione dello Spirito nella Chiesa e nel mondo, anche con una maggior cura nella celebrazione di questa festa, che nelle parrocchie e nelle diocesi viene spesso ampliata in liturgie vigiliari che raccolgono gruppi, associazioni e fedeli tutti, in una sorta di «festa di compleanno» della Chiesa, di ricordo e rinnovazione della missione ricevuta da Cristo e innescata dallo Spirito, quella di essere testimone del suo Vangelo nel mondo.
Si tratta di una sensibilità riscoperta negli ultimi decenni ma che forse non è diventata veramente patrimonio comune.
Una Chiesa protesa nei due sensi, ovvero da una parte all’ascolto e al discernimento dei segni dei tempi e dall’altra ad uscire fuori dei propri recinti incontro al mondo che la circonda, è molto più scomoda che non una Chiesa sicura di sé, arroccata nei suoi impianti dottrinali e nelle strutture che si sono stratificate nei secoli.
Un altro problema è che lo Spirito stesso non si lascia facilmente ingabbiare, neppure quando se ne sottolinea l’importanza e la centralità rispetto al passato, egli è sempre un passo più avanti. Nel brano di Atti che leggiamo ogni anno (At 2,1-11) viene giustamente messa in luce la capacità dello Spirito di creare comunicazione fra linguaggi diversi senza annullarli, ma non è un risultato scontato, non è solo il passaggio dal non capire al capire, come quando è buio e qualcuno accende la luce, la venuta dello Spirito non porta con sé solo soluzioni ma nuove domande. In questo caso nei presenti sorge una domanda: «come mai li sentiamo parlare nella nostra lingua nativa?» segno che l’incomunicabilità è ormai sentita come parte integrante dell’essere umano, e perciò non scatta subito il rallegrarsi per il comprendere, ma quasi una sorta di timore. Gesù aveva chiesto al paralitico: «vuoi guarire?» (cf. Gv 5,6), noi diremmo d’istinto: «e come no? dopo anni passati nella disabilità totale!».
Eppure Cristo lo chiede perché sa che l’uomo può diventare complice del proprio aguzzino, illudendosi di trovare qualche vantaggio perfino dalle situazioni più negative. Non comunicare offre un sacco di scuse ai propri comportamenti, mentre il comprendere porta nel raggio d’azione dell’altro e viceversa, col rischio di provare la stessa reazione di Adamo che scopre di essere nudo (cf. Gn 3,10). D’altra parte è pure vero che quel «come mai?» può contenere altre vibrazioni: quelle che nascono dal contemplare un mistero grande e irraggiungibile alla nostra esperienza immediata che entra nel nostro orizzonte e di fronte al quale, come dirà Paolo, parlare in lingue o meno non ha quella grande importanza (cf. 1Cor 14,1-19) rispetto a ciò che comporta. E’ il «come è possibile?» di Maria (cf. Lc 1,34) che non è espressione di sfiducia ma di meraviglia per l’inaspettato che irrompe nella sua esistenza e che scardina la chiusura del cuore, vero e unico problema che affligge ciascuno.
E allora forse il vero segno della novità dello Spirito, aldilà di manifestazioni clamorose, è la scoperta di questa luce travolgente, forza che «scuote i muri» della nostra esistenza e ci trasporta in una nuova dimensione in cui è possibile il dono di sé, un mistero che mi sembra di ritrovare poeticamente descritto nei versi di una famosa canzone di Dalla: «ecco il mistero: sotto un cielo di ferro e di gesso l’uomo riesce ad amare lo stesso e ama davvero senza nessuna certezza. Che commozione, che tenerezza!»
*Cappellano del carcere di Prato