La luce che serve per vedere Gesù
Con la narrazione evangelica di questa domenica (Gv 12, 20-33) ci avviciniamo a grandi passi verso temi tipicamente pasquali. Nell’episodio di oggi, che si situa dopo l’ingresso in Gerusalemme e immediatamente prima della Cena del Signore, la richiesta da parte dei pellegrini di lingua greca di vedere Gesù suona per lui come una chiamata, una discesa in campo per dare compimento alla sua missione, giocando il tutto per tutto nell’ora che, finalmente, è arrivata.
Non si tratta di una richiesta dal sapore blasfemo, tipo «facci vedere quello che sai fare», come invece viene narrato da Luca nell’incontro fra Cristo ed Erode che sperava di vedere qualche miracolo (cf. Lc 23, 8) o da Matteo, nel racconto degli scherni subiti al momento dell’arresto (cf. Mt 26,68). Qui possiamo trovare i toni della supplica, del desiderio che nasce in chi si trova nel buio; una supplica che, anche se in modo meno drammatico, può ricordare l’invocazione del cieco di Gerico «che io veda» (cf. Lc 18,38-41). Anche in questo brano, infatti, il tema della luce è fondamentale, come del resto in tutto questo Vangelo, e si conclude con l’invito a «credere nella luce per diventare figli della luce» (Gv 12,36). Quest’ultimo versetto purtroppo non è compreso nel brano liturgico, eppure si ricollega alla domanda iniziale degli interlocutori, soprattutto per l’azione finale di Cristo, totalmente inaspettata, di andarsene nascondendosi alla folla. Apparentemente si tratta di un diniego rispetto alla domanda iniziale, ma è un sottrarsi funzionale ad essa, che aiuta a comprendere la condizione per «vedere» il Cristo, quella di entrare nella sua logica.
«Alla tua luce vediamo la luce» dice il Salmo 35,10, una luce particolare, con «frequenze» uniche, che permette di percepire elementi altrimenti totalmente invisibili. Dire che si tratta della luce dello Spirito è cosa che appare ovvia, del resto questo è uno dei punti fondamentali dell’annuncio cristiano, la mancanza della quale rende il mondo cieco e del tutto incapace di comprendere la vicenda di Cristo (cf. Gv 14,17). Cosa pensare, ad esempio, dell’affermazione di Ebrei 5,7-9 (2ª lettura) su Dio che ode e libera il Cristo dalla morte quando, evidentemente, non lo ha liberato, almeno secondo i nostri canoni? E’ chiaro che Cristo è stato veramente liberato dalla morte, non solo perché è risorto ma perché egli l’ha vinta nell’atto stesso dell’offerta di sé, ma non si capisce questo di primo acchito se non nella luce dello Spirito, noi che spesso scambiamo la liberazione dalla morte con il suo semplice spostamento, non ora non qui. È la luce che insegna direttamente al cuore dell’uomo, come afferma il profeta (Ger 31,31-34; 1a lettura), che rende la legge di Dio un elemento non più estraneo o che richiede un lungo «training», ma che vibra in consonanza con la realtà più profonda dell’uomo.
E’ un annuncio gravido di conseguenze per tutte quelle strutture di mediazione che si propongono come docenti a servizio dell’uomo, certo per colmare la sua ignoranza, ma anche con un innegabile potere su di lui, scribi e dottori detentori della chiave della scienza (cf. Lc 11,52), ma anche chiese e autorità religiose, codici e catechismi. Se non totalmente squalificate sono certo ridimensionate dall’annuncio del dono dello Spirito effuso su ogni uomo, che libera dal timore perché ognuno possa trovare la luce per la propria vita, l’accesso a una profonda comunione con Dio, la familiarità e la libertà dei figli.
*Cappellano del carcere di Prato