I venditori del tempio e i motivi della nostra fede
Il brano evangelico di questa domenica (Gv 2,13-25) ci presenta il Cristo in una luce abbastanza inconsueta. Non tanto per la cacciata dei venditori dal tempio, o non solo per quello, quanto piuttosto per una notazione riportata dall’evangelista ovvero che Gesù non si fidava di coloro che, vedendo i segni da lui compiuti, avevano creduto nel suo nome (v.24).
Questo Gesù che sta sulle sue, sospettoso, incupito, cozza con l’immagine solare che egli irradia, o che comunque siamo abituati a vedere in Lui, che solitamente non ha questo atteggiamento distaccato neppure con chi gli si oppone apertamente. Il suo stesso conoscere il cuore dell’uomo, le contraddizioni nelle quali si dibatte, non è un ostacolo alla sua azione, egli che non teme, nel suo cammino, di incontrare peccatori di ogni genere.
Forse è questo tema del «segno» che non è facile comprendere. Alcuni chiedono un segno a giustificazione dell’azione nel tempio, liquidato poi con sarcasmo, ma pure coloro che hanno creduto non convincono il Cristo riguardo alla loro autenticità. Un segno può, allora, motivare o no la risposta di fede? In teoria forse sì, ma all’atto pratico vi sono molti problemi, come testimoniato dallo stesso vangelo di Giovanni dove spesso Cristo mette in guardia su questo argomento: «se non vedete segni e prodigi, voi non credete»( Gv 4,48); «voi mi cercate non perché avete visto dei segni, ma perché avete mangiato di quei pani e vi siete saziati».(Gv 6,26); addirittura sono un motivo di opposizione da parte del sinedrio che pure li riconosce: «Che facciamo? Quest’uomo compie molti segni» (Gv 11,47).
Questa difficoltà non nasce solo dalla malafede, poiché un rischio dei segni, anche nel loro senso più generale, è quello di confermare idee o aspettative preesistenti. A volte possiamo sentirlo o dirlo in prima persona: «in quella cosa, in quel fatto ho visto un segno per agire in questo modo…»; oppure a partire dall’ascolto della Parola: «Quella frase è stata per me un segno…ho visto in essa un segno che Dio…». E’ evidente che questa è una possibilità, ma anche che ciò possa essere la conferma di un’attesa, e qui sta il rischio, di far dire al segno quel che io desidero che dica, anche con tutta la sincerità possibile. Forse (ma è solo la mia opinione naturalmente) è questo che provoca in Cristo quella strana reazione di cui sopra. Sarà invece un altro segno inequivocabile che potrà fondare una risposta di fede, perché non avrà nulla da confermare, anzi trascinerà fuori da sé stesso chiunque si pone davanti ad esso per coglierne la presenza dirompente, il segno di Giona (cf. Mt 12,40), la discesa di Cristo nel ventre della terra, l’evento totalmente inaspettato che azzera ogni sapienza umana (1Cor 1,22-25; 2a lettura) e si pone come discrimine per la nostra vita.
Si comprende in quest’ottica anche la cacciata dei venditori che non erano affatto abusivi, ma funzionali allo svolgimento di una ritualità codificata dalla stessa Legge di Dio, (cf. Es 20, 1-17; 1a lettura) che determinava le modalità con le quali attuarne i dettami. Ma la stessa alleanza non è esente dal rischio di essere vissuta come semplice adeguamento a un fatto di costume, allora come oggi; il segno potente di un Dio che parla, agisce nella storia, fino all’impensabile discesa di Cristo, sterilizzato in un rito che rimanda solo a se stesso, una religione preconfezionata, buona per tutte le stagioni, ma che Cristo, allora come oggi, «incrina» per aprire uno spiraglio al soffio dello Spirito.
*Cappellano del carcere di Prato