Dal sacrificio di Isacco a quello di Gesù
Qualche anno fa un giovane padre di famiglia mi confidò che il figlio, di ritorno dal catechismo dove aveva ascoltato il brano del sacrificio di Isacco (prima lettura di questa domenica – Gn 22,1-18) gli aveva chiesto: «Ma se Dio chiedesse a te di offrire me in sacrificio, tu cosa faresti?». Egli rispose naturalmente che non l’avrebbe fatto, forse dando anche alcune spiegazioni, ma rimanendo comunque insoddisfatto, come se si sentisse in qualche modo inadempiente rispetto a quello che un vero credente avrebbe dovuto fare. Il figlio aveva messo il dito nella piaga cogliendo l’aspetto scandaloso di questo brano, ma anche la risposta che nasce spontanea può lasciare insoddisfatti, come se la fede avesse bisogno di un correttivo nei suoi aspetti più paradossali, rischiando, però, di renderla annacquata. È vero anche che a volte la fede è un salto nel buio e a ben poco vale l’esortazione data dall’esterno, o che parte dalla conoscenza del lieto fine: ad Abramo è andata così, ma non è detto che vada sempre allo stesso modo.
Ogni volta si riparte da zero e le esperienze, testimonianze, esortazioni non sono dimostrazioni matematiche. È il motivo per cui nella sofferenza qualcuno trova la fede e qualcuno la perde, qualcuno si apre al mistero e qualcuno si chiude ad esso. Quale allora il senso, o l’utilità di ascoltare ancora un brano come questo? Principalmente nel cammino che esso testimonia all’ interno dell’intero panorama biblico. Un buon pane è composto da vari elementi che da soli sono difficilmente commestibili, come il lievito o la stessa farina, ma che insieme concorrono a formare questo alimento basilare. Così questo brano di per sé è quasi indigeribile, anche se possiamo notare che il sacrificio dei primogeniti non è affatto così astruso nelle società di quel tempo, e la stessa Bibbia ne dà testimonianza (cf. Gdc 11,31; 2Re 3,17), ma il finale del brano, la sostituzione del figlio con il capro, apre alla comprensione di un Dio che non è più il padre che divora i propri figli, come nelle visoni mitologiche, ma colui che apre una storia, che offre un futuro; il Dio della relazione che, riprendendo il messaggio dell’ alleanza con Noè ascoltato domenica scorsa, rassicura l’uomo che non ha nulla da temere da lui.
È la seconda lettura (Rm 8,31-34) che reinterpreta questo annuncio leggendo nel Cristo, figlio immolato, il vero senso di questo brano: Dio non prende ma dona se stesso; per tornare al simbolo del pane, Cristo porta a compimento le promesse di Dio e diviene lui stesso pane per la vita del mondo.
Allora anche la salita sul Tabor (Mc 9,2-10) rievoca in qualche modo quella sul monte Moria. È solo un anticipo ma già lo sguardo è orientato verso Gerusalemme dove Cristo donerà definitivamente se stesso fino alla fine, proprio a pochi passi da quel luogo dove Abramo ha riavuto in dono il figlio, indicato dalla tradizione sulla spianata del tempio. Il messaggio della liturgia più che sulla fede di Abramo, o nostra, è allora incentrato sul dono di Dio.
Il rifiuto di quel padre di pensare alla fede come a qualcosa di mortifero per la nostra vita non è quindi dovuto solo alla tiepidezza spirituale che viene a volte rimproverata al cristiano medio, ma è ben fondato sulla condiscendenza di Dio manifestata in Cristo. San Leopoldo Mandic, apostolo della confessione, rispondeva a chi criticava la sua mitezza: «se il Signore mi rimproverasse di troppa larghezza potrei dirgli: questo cattivo esempio me l’avete dato voi, morendo sulla croce».
*Cappellano del carcere di Prato