Abbracciare i malati per guarire noi stessi
La liturgia di questa domenica ci presenta nel Vangelo (Mc 1,40-45) un altro segno compiuto da Gesù, la guarigione del lebbroso, un segno che rivela Cristo come portatore al mondo di una vita nuova, di possibilità insperate, ma ci rivela anche alcune modalità con le quali vengono affrontati momenti di crisi nella comunità.
È indubbio il fatto che la lebbra, come altre gravi malattie, sia una minaccia per la sopravvivenza della società, e le sacre scritture, anche di altre tradizioni religiose, spesso cercano di codificare comportamenti e scelte tesi a proteggere la comunità. Effettuare dei cordoni sanitari attraverso leggi che disciplinano comportamenti, anche di tipo morale, per la salvaguardia della società, in senso esteso, è comprensibile. Il problema è quando questi comportamenti si sclerotizzano senza più alcun riferimento alla realtà diventando principi astratti. Alcuni esempi: le norme alimentari nascono spesso per motivi igienici, come i comportamenti da tenere in caso di malattie, caso illustrato oggi dalla prima lettura (Lv 13,1-2.45-46), capita poi che questi comportamenti vengano sacralizzati anche quando non vi sia più alcun pericolo concreto da cui guardarsi, divenendo norme a sé stanti, di costume: si è sempre fatto così, questa è la tradizione… vi è anche un pericolo ulteriore, quello di guardare la realtà solo da un punto di vista: il problema iniziale, come cercare di difendersi da una malattia, diventa come difendersi dagli ammalati; non come evitare la povertà, ma come evitare i poveri.
Ed ecco che il lebbroso, da vittima di una grave malattia che certo richiede, specialmente in quel tempo, una forma di isolamento, diventa il tipo del peccatore, il percosso da Dio da ostracizzare, da relegare in un deserto di rapporti. Ma questo si può applicare a tante altre categorie: il malato di mente, per anni oggetto di violenze gratuite nei manicomi, socialmente accettate o addirittura richieste, e a tutt’oggi «patata bollente» che difficilmente qualcuno vuol maneggiare; le persone detenute, dipinte a volte come clienti di hotel a cinque stelle, che invece bisognerebbe ampiamente «mazziare». Questo non per negare che i problemi esistano: ci sono problemi sanitari, psichiatrici, giudiziari, della disabilità, della devianza. Ma sono problemi di tutta la comunità ed essa non può limitarsi a cercare di scrollarseli di dosso. Gesù Cristo, aldilà della guarigione, considera il lebbroso come un persona da ascoltare, toccare, comprendere nella sua situazione. È un gesto che ripeterà secoli dopo Francesco d’Assisi quando, abbracciando il lebbroso, sarà lui stesso a guarire dalla ripugnanza che lo allontanava dalla sofferenza, una ripugnanza forse anche alimentata dalle norme sociali che così codificavano il rapporto col sofferente. L’espulsione del lebbroso diviene un’espulsione cognitiva, più che spaziale, non viene visto, anzi non deve essere visto perché la vita sociale non venga turbata da ciò, la realtà può essere distorta a tal punto da non vedere come questo problema la riguardi. Cristo invece invia il lebbroso ormai guarito dai sacerdoti a testimonianza per loro.
Non è il lebbroso che ha bisogno di una testimonianza, un certificato di riabilitazione, ma i sacerdoti che vengono chiamati a cambiare il loro punto di vista e riguardare l’altro come una persona nuova; non è tanto lui che rientra ma loro che devono uscire fuori a riconoscere che qualcosa di nuovo è avvenuto, e con loro anche ciascuno di noi.
*Cappellano del carcere di Prato