L’urgenza della conversione
Nella liturgia di questa domenica vi è una singolare consonanza fra le tre letture, cosa che non sempre accade, e che potremmo individuare nel tema dell’urgenza.
Vi è l’urgenza della conversione proclamata da Giona a Ninive per evitare la distruzione della città (Gn 3,1-5.10; 1a lettura), così pure nel Vangelo, dove l’approssimarsi del Regno ha portato il tempo al suo compimento (Mc 1,14-20) ed anche Paolo relativizza relazioni, esperienza gioiose e tristi, rendendole semplicemente parti di uno schema, o scena, che sta mutando velocemente, cosa che ridimensiona fortemente l’importanza di questi elementi (2Cor 7,29-31; 2a lettura). In apparenza il tema dell’urgenza dovrebbe suonare abbastanza familiare alle nostre orecchie, non è forse una caratteristica del nostro mondo la velocità, la riduzione dei tempi morti e il riempimento del giorno di impegni fino all’inverosimile così che il tempo non basta mai?
Davvero il tempo «abbreviato» potrebbe essere una immagine espressiva del nostro tempo. In realtà non è così, anche perché l’urgenza di cui parla la scrittura non ha niente a che vedere con la fretta o l’irrequietezza, al contrario, assomiglia di più a un atteggiamento meditativo perché parte dalla considerazione di un cambiamento necessario rispetto ad assetti presenti dei quali si percepisce l’insufficienza. E’ il «mettere le mani in pasta», il mettersi all’opera in vista di una meta da raggiungere, o comunque accogliere. In questo senso il nostro tempo non assomiglia affatto a tutto questo, ne è piuttosto la negazione; è spesso un agitarsi che non guarda oltre il proprio naso, incapace di un respiro più ampio.
Vi sono molti esempi che potremmo fare: sappiamo da decenni che le risorse fondamentali del pianeta non sono inesauribili e che occorrerebbe cambiare rotta, ma non si intravedono modifiche significative, vi è il problema del cambiamento climatico che si continua a far finta di non vedere per non mutare i propri stili di vita, le migrazioni umane viste solo come problema di ordine pubblico anziché nel loro significato di segni dei tempi, l’impossibilità di una crescita economica infinita che si continua a evocare come un mantra e così via. La conversione di cui parla la liturgia non è innanzitutto un impegno morale, ma nasce da uno sguardo di verità sulla propria situazione e di ricerca della via migliore per viverla, in continuità con l’azione di Dio che ha scelto, in Cristo, di entrarvi non solo per giudicarla, ma anche per offrire una via di salvezza. Invece spesso ritorna a galla, anche nella Chiesa, una visione fideistica per cui si sceglie di non far nulla, credendo forse in questo modo di affidarsi alla provvidenza, o, peggio, temendo, come Giona, che Dio possa davvero offrire una vita nuova a partire dalla sua misericordia, incapaci di andare oltre un’ ottica totalmente pessimistica.
L’invito alla conversione di cui parla la scrittura non è semplicemente una minaccia, ma l’apertura a un tempo nuovo; per convertirsi non occorre solo riconoscere la propria indegnità ma la grandezza della chiamata e della possibilità che viene offerta. Cristo invia gli apostoli a pescare uomini per introdurli nel Regno e non farli soffocare nella loro acqua torbida. Giona, anche se a malincuore, si offre per compiere la volontà di un Dio che ha a cuore la vita di uomini e animali. E’ l’amore di Cristo che «urge» (cf. 2Cor 5,14) e può spingere la nostra vita a sbocciare pienamente, portando nel nostro mondo ammuffito i colori della fantasia di Dio.
*Cappellano del carcere di Prato