Una Parola in cerca di orecchie
La liturgia di questa domenica apre il ciclo festivo del tempo ordinario, dopo la conclusione del tempo di Natale, mantenendo comunque un certo collegamento con questo periodo. Infatti il vangelo di oggi (Gv 1,35-42) è «anomalo» rispetto al ciclo dell’anno B che prevede solitamente la lettura di Marco, ed è la conclusione del primo capitolo, le altre parti del quale abbiamo già ascoltato il giorno di Natale, con il grandioso inno al Verbo fatto carne, e nella terza domenica di avvento, con la confessione del Battista della propria indegnità a sciogliere i sandali di colui che da lì a poco si sarebbe presentato. Potremmo anzi dire che sia quel brano che quello di oggi racchiudono, come un’apertura e una conclusione, l’inno natalizio al Verbo incarnato celebrato nella liturgia, in modo che il prosieguo del tempo ordinario appaia come una lunga meditazione e itinerario che sviluppa il grande mistero che con il Natale ha illuminato il mondo.
Si può parlare di itinerario perché, da subito, viene «rimandata la palla» alla comunità dei discepoli di ieri e di oggi: Cristo è venuto, la parola si è lanciata dal suo trono regale (cf. Sap 18,14-14) ma questo non significa che tutti i giochi siano fatti; la parola è in cerca di orecchie che la sappiano accogliere. In questo senso è sintomatica la vicenda del giovane Samuele (1Sam 3,3-10.19; 1a lettura). Affidato al sacerdote Eli fin dalla prima infanzia, dimorante nel tempio del Signore, nei pressi dell’arca di Dio, nel luogo più sacro in assoluto egli, dice tranquillamente la Scrittura, «non aveva conosciuto il Signore» (v. 7)… allora forse è possibile anche fare il catechismo, l’ora di religione a scuola, magari pure il seminario e «non conoscere il Signore?»
La risposta è chiara, nessun discepolato, di per sé, può sostituire la risposta di fede, non può esistere nessun automatismo che provoca la sequela. Il sacerdote aiuta Samuele a orientare il suo orecchio, ma il raccogliere e non lasciar andare a vuoto alcuna delle parole del Signore sarà solo responsabilità di Samuele e del suo coinvolgersi in una storia con Dio. La stessa opera di Giovanni ha questa caratteristica, egli orienta i discepoli a Cristo, ne enuclea la sua identità nascosta di Agnello di Dio, lasciando però tutta la fatica della scoperta, dell’intessere un rapporto a partire dal «restare con lui» (v.39). È interessante che la denominazione «agnello di Dio» non venga, a quanto sembra, utilizzata più di tanto dagli interlocutori di Gesù, preferendo termini come Rabbì/Maestro o Messia/Cristo, mentre ritornerà a ogni piè sospinto nell’Apocalisse come termine che esprime al massimo grado l’identità del Risorto.
Forse sarà solo un caso, ma sembra che nel Vangelo questo termine faccia più fatica ad essere accettato, bisognoso di una assimilazione più lunga, come dire che solo alla fine Cristo potrà rivelarsi come agnello (e come pastore). C’è un passo da fare, quello di acquisire una nuova identità su se stessi e sulla relazione con lui, il nuovo nome di Pietro, poiché la novità di Cristo può essere accolta solo nella novità della propria vita. S.Agostino affermerà in un suo discorso: «Siamo stati ammoniti di cantare al Signore un cantico nuovo. L’uomo nuovo sa qual è il cantico nuovo» (Serm. 34).
Anche Pietro, forse, capirà il Cristo agnello di Dio quando a lui stesso verrà affidato il compito di pascere il suo gregge (cf. Gv 21,15-19) come frutto di un amore rinnovato.
*Cappellano del carcere di Prato