Se la vita contrasta con ciò che si annuncia
«Ora a voi questo monito, o sacerdoti…» (Mal 1,14-2,10; prima lettura), da qui potremmo iniziare una riflessione sulla liturgia di questa domenica, caratterizzata appunto dal riferimento alla condotta di coloro che sono chiamati a svolgere un ministero a favore del popolo di Dio.
Se da una parte emerge la figura luminosa di Paolo che avrebbe voluto donare, oltre al vangelo, la sua stessa vita ai fratelli, cosa che peraltro farà, com’è noto (1Ts 2,7-13; 2a lettura), dall’altra si stagliano le figure «spregevoli e abiette» tratteggiate da Malachia e quelle tronfie e vacue delle quali parla Gesù (Mt 23,1-12). Si tratta di due facce di una stessa medaglia, due possibilità contrapposte residenti, come sempre, nel cuore di ogni uomo e non solo dei sacerdoti e dei farisei di quel tempo. Ancora una volta la parola risuona per noi oggi, sacerdoti, diaconi, vescovi e chiunque abbia un ministero, anche solo di fatto , nella Chiesa, noi che siamo per primi giudicati dalla parola che annunciamo e che non possiamo pretendere di possedere o di addomesticare. Il messaggio della Bibbia, l’annuncio evangelico trova proprio in questo uno dei tratti distintivi che ci permette di cogliere la sua unicità, il fatto di non essere il prodotto di congetture umane, questo non-essere- a -propria- somiglianza che si manifesta proprio nelle persone alle quali è affidato e che per prime sono messe in crisi dal compito ricevuto.
È uno squilibrio, quello del rapporto fra annuncio e vita del ministro, che non si risolve facilmente, neppure con la generica affermazione che occorre essere di esempio agli altri. Da questo punto di vista si deve sottolineare che la distanza fra annuncio e testimonianza di vita rimarrà sempre, il messaggio sarà sempre eccedente ogni nostra realizzazione, non fosse altro che per il compito di «essere perfetti come il Padre» (Mt 5,48), o amare come Cristo ha amato noi (Gv 13,34), inesauribile per definizione.
Vi è un altro motivo che merita di essere approfondito: la verità del Vangelo, l’autenticità della sua proposta risiede in sé stesso, al di là della testimonianza o della santità di vita dell’annunciatore. Altrimenti potremmo cadere nell’equivoco illustrato dal noto aforisma: «quando il dito indica la luna, lo sciocco guarda il dito». Allora quale il senso, l’importanza di una testimonianza autentica, quale il suo ruolo? Credo che, fatta salva la verità della Parola che non deve essere certificata da nessuno dei comportamenti umani, né svalutata da nessuna controtestimonianza, vi sia un ruolo che ha ogni ministro (inteso in senso ampio, in fondo coincidente con chiunque voglia «render conto della speranza che è in lui»[cf.1Pt 3,15]) che è quello di mostrare vie di vissuti possibili.
Quando vediamo all’opera un bravo artigiano o un artista noi possiamo imparare qualcosa anche se vi possono essere molti altri modi di agire, opere diverse da produrre o anche di migliori. In ogni caso possiamo aver imparato qualcosa, un modo possibile di agire in quella situazione. Così parlare di amore, fraternità in astratto è una cosa, vedere alcuni modi di realizzarli nella vita delle persone è un altro, anche se rimangono limitati e fallibili, e i tentativi migliorabili. Rimane così, sotto il segno della ricerca e del provvisorio, sia la nostra fragilità che ci permette di non cadere nel vanto (cf. Rm 3,27) che il dovere di offrire una «chiave» ai fratelli come ausilio per il cammino, per non incorrere nell’aspro rimprovero di Gesù a chi si fa ostacolo ai piccoli (cf. Lc 11,52).
*Cappellano del carcere di Prato