Il tributo a Cesare, lo sguardo su Dio
La liturgia di oggi ci presenta, nel vangelo, il celebre brano del tributo a Cesare (Mt 22,15-21), un brano che può suscitare diversi interrogativi sui motivi che hanno portato a sollevare la questione.
Matteo dice chiaramente che lo scopo è mettere in difficoltà Gesù, quantomeno tentare di incasellarlo nei partiti dell’epoca, favorevoli, contrari o possibilisti riguardo all’occupazione romana. Non sono uno specialista ma non credo che questo potesse essere un argomento utilizzabile per mettere in stato di accusa Gesù, infatti vi erano gruppi, come gli stessi erodiani citati in questo brano, oppure i sadducei, che erano abbastanza collaborativi nei confronti dell’autorità senza incorrere in grandi difficoltà. Forse si tratta più di una manovra di discredito agli occhi del popolo (come sottolinea la versione di Luca), il tentativo di far partire la «macchina del fango» (come diremmo oggi) per cogliere un’ affermazione qualunque e interpretare la persona di Cristo, il suo messaggio, a partire solo da essa, rendendolo fatalmente una macchietta. D’altra parte la sottolineatura, presente in tutti i sinottici, del Maestro che «non guarda in faccia a nessuno» sembra più un’etichetta che si tenta di apporre a Gesù piuttosto che il riconoscimento di una realtà di fatto. Come se questo ruolo lo precedesse, ruolo a cui dovrebbe attenersi rendendolo così penosamente falso, come il politico che si atteggia in un certo modo perché così vuole il pubblico senza minimamente crederci lui stesso.
In questo senso si capisce anche il riferimento alla tentazione di cui parla Cristo. È una messa alla prova che va al di là della soluzione di un difficile quesito, se ricordiamo le tentazioni alle quali è sottoposto Gesù nel deserto, riguardano tutte il suo ruolo, non tanto problemi e bisogni particolari: la fame può innescare la tentazione, ma il nocciolo è «se tu sei il figlio di Dio» (Mt 4,3). Cristo però non si lascia distrarre da questi rumori di fondo, in questo senso è vero che non «guarda in faccia a nessuno», neppure all’immagine che qualcuno vorrebbe cucigli addosso.
Anche il «rendere a Cesare quel che è di Cesare» è tutt’altro che una semplice formula di neutralità politica, il «tira a campare» che è sempre di gran moda. È dire in modo chiaro che il problema non sta lì, o perlomeno non è che la manifestazione di altro. Il problema non è Nabucodonosor che deporta il popolo, o Ciro, che Isaia addirittura presenta come eletto da Dio, anche se a sua insaputa (cf. Is 45, 1-6; 1a lettura). Il vero problema, direbbero i profeti, è l’infedeltà all’alleanza che ha prodotto questo (cf. Ger 5, 1-17).
Noi oggi possiamo essere più smaliziati e pensare che ci sono anche altri motivi per cui un paese, una società si trova in difficoltà o vive passaggi ostici. Ma il tentativo di individuare un capro espiatorio rimane sempre attuale ed allora forse è giusto riflettere anche sulle proprie connivenze con «il secolo presente» (cf. 2Tim 4,10) e con le responsabilità che hanno reso possibile l’affermarsi del Cesare di turno. Qualche anno fa si parlava spesso di «peccato strutturale», cioè del fatto che possiamo trovarci complici di situazioni negative anche senza essere direttamente responsabili: lo sfruttamento della terra, l’inquinamento fatto in gran parte dai miliardi di piccole scelte quotidiane quasi impercettibili, il consumismo che si basa sul lavoro sottopagato… non è così facile sottrarsi a Cesare, occorre innanzitutto esserne consapevoli e cercare un riferimento diverso. Dio, appunto.
*Cappellano del carcere di Prato