Se i vignaioli si appropriano della vigna
Il tema della «vigna del Signore» emerge con grande evidenza dalle letture di questa liturgia domenicale. Si tratta di un’immagine ricorrente nella Bibbia, anche in altre pagine (cf. Sal 79,12), poiché forse più di altre riesce a rendere l’idea dell’operato di Dio: la fatica e il lavoro, l’assiduità dell’impegno richiesto per questo tipo di coltivazione; ma anche la bellezza, i colori, il sapore dei frutti e del vino promesso, insieme a tutto l’aspetto di relazioni amicali che la vendemmia da sempre produce, l’allegria e la delusione quando qualcosa va storto, la convivialità di bere un bicchiere con amici e familiari. Si tratta perciò di un simbolo potente, che ritroviamo anche nella liturgia eucaristica dove rendiamo grazie per il «frutto della terra e del lavoro dell’uomo», che fa risaltare gli sfregi compiuti su questa sorta di affresco del progetto di Dio e ne fa cogliere l’amarezza.
Come un innamorato respinto e i cui regali non sono stati neppure considerati, Dio è stato frustrato nelle sue aspettative da un popolo che non ha corrisposto per niente alla sua chiamata, anzi, all’opposto, ha prodotto frutti velenosi: grida di oppressi, spargimento di sangue, il giardino delle delizie si è trasformato in un lager (Is 5,1-7; 1a lettura), la terra donata a tutti è stata sfregiata da recinti di filo spinato. Il brano evangelico (Mt 1,33-43) riprende questa considerazione ma con qualche variante. Una di segno positivo, pieno di speranza: la vigna non è il popolo, non è neppure la Chiesa, bensì il regno di Dio, il corpo di Cristo formato dai tralci uniti a lui, vera vite (cf. Gv 15,1). Il senso della storia, per fortuna, non riposa in noi, è nelle mani di Dio, non è opera nostra ma dono della sua grazia. Come dire che, stavolta, la vigna produrrà certamente i frutti attesi, perché un Germoglio la vivifica (cf. Zc 6,12), il Messia morto e risorto.
Vi è però, se possibile, una riflessione ancora più amara: il Regno è comunque affidato alla testimonianza e alla cura di coloro che Dio chiama a «proclamare le opere meravigliose di colui che ci ha chiamati dalle tenebre alla luce» (1Pt 2,9) perciò non c’è più neppure la scusante della propria debolezza o incapacità di fare frutti, ma solo il bieco interesse di chi, come i vignaioli, cerca l’eredità, senza accorgersi che l’eredità è la vigna stessa, così come la ricompensa dell’annuncio del Vangelo è lo stesso annuncio (cf. 1Cor 9,18).
Non limitiamoci a considerare questa parabola, come pure il brano di Isaia, solo i riferimento al popolo ebraico e ai capi che hanno rifiutato Cristo, la liturgia parla a noi oggi, e noi siamo i destinatari di questo annuncio. Se la Chiesa, come dice il Concilio, è il segno e l’inizio del regno (LG5), come si esprime, come parla agli uomini di oggi? Certamente se ne possono cogliere gli effetti in molti campi e situazioni, ma vi sono anche molti punti oscuri. E questi punti oscuri sono solo la conseguenza dell’opposizione del mondo o è proprio la nostra testimonianza che è fallace? Quando veniamo a conoscenza di eventi tristissimi che avvengono nella Chiesa stessa, violenze, divisioni, fiancheggiamenti dell’illegalità, clientelismi, ricerca di denaro e potere, come non riconoscersi nei servi della parabola?
Il fuoco di sbarramento cui è sottoposto papa Francesco nel suo sforzo di riforma (o semplicemente di ripresa di temi che dovrebbero essere scontati), opposizione che ha sfiancato anche il suo predecessore Benedetto, non ci ricorda il tentativo dei vignaioli di appropriarsi del dono di Dio a proprio uso e consumo?
*Cappellano del carcere di Prato