La «grammatica» del regno dei cieli

Il brano evangelico di questa domenica (Mt 13, 44-52) ci propone la lettura delle ultime «parabole del regno» raccolte da Matteo in questo capitolo e che ci parlano ancora della «grammatica» del regno di Dio.

Forse non è un caso che alla conclusione del brano Cristo proponga  una nuova similitudine, quella dello scriba divenuto discepolo che, come un padrone di casa, estrae del suo tesoro cose nuove e cose antiche. Si parla proprio di una scriba e non genericamente di un uomo, ed è un fatto alquanto strano.  Infatti non sappiamo se e quanti fossero gli scribi diventati discepoli nella prima comunità, mentre è molto più facile trovarli accomunati ai farisei e agli altri oppositori di Cristo, spesso ostacolati nell’adesione a lui proprio dal loro impianto mentale e dal loro approccio alla Parola rivelata (cf. Mt 23,23).

Anche se possiamo essere stupiti dell’accostamento scriba-discepolo, forse questo  è utile per sottolineare l’aspetto «grammaticale» del regno che proprio uno scriba può meglio capire ed esprimere. La grammatica di una lingua non è mai solo un’accozzaglia di norme o regole (anche se studiandola a scuola a volte può sembrare così) ma esprime una visuale sul mondo, l’importanza data ad alcuni elementi, la subordinazione di altri, un quadro di riferimento per interpretare al meglio la realtà:  i moltissimi vocaboli per identificare i diversi tipi di ghiaccio nelle lingue nordiche, ad esempio, possono aiutare a comprendere quel contesto meglio di una lingua che abbia solo pochi vocaboli atti allo scopo.  Anche il regno di Dio non fa differenza, non tutte le grammatiche sono adatte per comprenderlo ed esprimerlo: queste parabole, ad esempio, mettono in luce alcuni aspetti del regno quale  il nascondimento e il mistero della sua compresenza con altre realtà.

Una delle critiche che potremmo fare al regno di Dio, utilizzando una grammatica diversa, è che non è immediatamente visibile e accessibile. Nell’ottica di Cristo è invece una delle sue caratteristiche peculiari al punto che, dopo aver trovato il tesoro, lo scopritore lo seppellisce di nuovo, in attesa di poter comprare il campo. Potremmo farci molte domande sul perché questi ha potuto trovare un tesoro in un campo non suo, o perché semplicemente non se lo è portato via: nella grammatica del regno , forse, si vuol solo sottolineare l’importanza della custodia nel proprio cuore di certe realtà (cf. Lc 2, 19), che anche il silenzio ha una sua fecondità, mentre per altri «impianti» è solo tempo perso.

Stessa cosa per la perla preziosa: vendere tutto per una bene così grande ha senso, in una certa ottica, solo se posso rivenderlo per aumentare il mio capitale. Ma così la perla non è più unica, è una fra tante. Del resto se ha davvero un così grande valore come potrò piazzarla sul mercato? La risposta è che la bellezza non si può quantificare: posso entrare nel regno se ho questo sguardo capace di perdere, di gioire della beatitudine nella mia povertà, di non inseguire solo beni contabili. Pazzia? No, ma solo seguendo una grammatica diversa da quella corrente. Nella parabola della rete occorre accettare di aver pescato anche pesci non commestibili, mischiati con altri. Ovvero posso vivere in modo autentico solo se mi faccio carico anche di queste realtà fallimentari, tempi morti, tentativi abortiti e rendere grazie per tutto, le cose «nuove e antiche» della mia esistenza.  Ma, ancora una volta, necessito di una grammatica (o, come direbbe Salomone, una sapienza – cf. 1Re 3,5-12; 1a lettura) diversa.

*Cappellano del carcere di Prato